Ricordo perfettamente la prima volta che mi sono imbattuto nel lavoro di Nikolaus Harnoncourt, il direttore d’orchestra austriaco morto il 6 marzo a 86 anni. Avevo 22 anni e un interesse molto vago e ingenuo per la musica antica. Vivevo un periodo di scoperte e di evoluzioni, sia sul fronte personale sia su quello culturale. Avevo l’impressione di avere davanti a me uno spazio infinito di scoperte e di sperimentazioni.
Quando mi fu regalata una ristampa in cd dell’album Cathy Berberian sings Claudio Monteverdi del Concentus Musicus Wien diretto da Harnoncourt è come se qualcuno mi avesse detto: questa è la musica antica, accomodati. Di quel disco mi piaceva tutto: a cominciare dalla brutta copertina anni settanta della Teldec che, rispetto agli svenevoli Tiepolo e Canaletto che cominciavano a infestare i settori di musica barocca dei negozi di dischi, mi parlava di un approccio più rigoroso e senza fronzoli.
Il disco si apre con un componimento a voce sola in genere rappresentativo, la lettera amorosa. È un lungo recitativo, una poesia d’amore, cantata (e soprattutto recitata) dal mezzosoprano Cathy Berberian. La cosa stupefacente di quell’incisione è la sua nitidezza: Harnoncourt ha preso un brano del seicento e lo ha trasformato in musica contemporanea. E lo ha fatto scrostando la musica antica da una prassi esecutiva vecchia che la voleva manierata e un po’ affettata.
È stata fondamentale la scelta di un’interprete vocale versatile e moderna come Berberian. Il mezzosoprano, una statunitense di origine armena, era una sperimentatrice e a sua volta una compositrice, è stata per quattordici anni la moglie del compositore Luciano Berio e, con Harnoncourt, è riuscita a fare un piccolo miracolo: a dare un senso, musicale e letterario, a ogni sillaba di quella poesia. Quello che veniva chiamato “recitar cantando” e di cui si era persa la memoria, tornava a vivere su disco. Ma non come rievocazione in costume o come anticaglia, ma come una vibrante pagina di musica contemporanea.
Quel disco mi ha fatto riflettere: la musica, ogni musica non importa se antica o moderna, classica o pop, è un momento nel presente. Anche la musica più antica, se la riprendiamo oggi, se la eseguiamo, anche con strumenti d’epoca come ha fatto in maniera pioniersitica Harnoncourt, diventa musica di oggi. E quindi musica di tutti.
Nikolaus Harnoncourt dirige L’Orfeo di Claudio Monteverdi, Zurigo 1978.
Le incisioni discografiche hanno trasformato l’esperienza dell’ascolto, che ai tempi di Monteverdi era unica e irripetibile nel tempo, in un’esperienza reiterabile all’infinito. Eppure anche le tecniche di esecuzione e di incisione risentono della loro epoca e delle tecnologie del loro tempo e quando Harnoncourt e la Berberian, negli anni settanta, hanno fatto rivivere Monteverdi, hanno tenuto conto di tutto questo, facendosi mille domande, studiando ogni dettaglio e restituendoci una musica purissima che è, consapevolmente, figlia di quegli anni di sperimentazione e di studio.
Sia le pagine madrigalistiche sia quelle operistiche di quel disco sono uno straordinario laboratorio interpretativo. Si ha la percezione del lavoro di smontaggio e di ricerca del senso di ogni nota, di ogni suono. Nei brani dell’Orfeo e dell’Incoronazione di Poppea, per esempio, c’è il teatro e sembra quasi di sentire scricchiolare le assi di un antico palcoscenico o gli ingranaggi di fantasmagoriche macchine teatrali, mentre in pagine più intimiste e private (Con che soavità) la musica cambia passo.
Quel disco mi ha aperto le porte del titanico lavoro che Harnoncourt, insieme al clavicembalista Gustav Leonhardt, ha fatto sulle cantate sacre di Bach e, negli anni, mi ha dato una chiave di lettura per apprezzare tante altre pagine di musica barocca. Perché al di là della bellezza abbagliante della musica, quel disco è un lavoro sul linguaggio, una specie di stele di Rosetta.
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