Le autobiografie delle rockstar di solito sono sbobinature trascritte e rimontate in fretta e furia da ghostwriter che hanno altro per la testa e che passano più tempo dagli avvocati che sulla scrivania di un editor. Sono narrazioni scombiccherate in cui i dettagli scabrosi o pettegoli che il lettore si aspetta sono controbilanciati da una morale consolatoria. Insomma, insieme ai libri di ricette delle celebrità e a certi manuali di autoaiuto, rischiano di essere le letture più inutili del mondo.
Fin dalla prima riga di Girl in a band di Kim Gordon (Minimum Fax, 306 pagine, traduzione di Tiziana Lo Porto) si capisce che questo è un libro diverso: uno dei rari casi in cui il racconto in prima persona di un’artista rock ha una sua urgenza e un suo stile.
Kim Gordon (1953) è la bassista, cantante e cofondatrice dei Sonic Youth, un gruppo rock statunitense che dal 1981 al 2011 ha ridefinito l’estetica postpunk con uno spirito più vicino a quello delle avanguardie artistiche che a quello dei classici musicisti rock. Il gruppo era stato fondato proprio da lei e dai due chitarristi Lee Ranaldo e Thurston Moore, che Gordon ha sposato nel 1984.
Kim Gordon e Thurston Moore, una coppia affiatata nella vita e nell’arte, erano la favola romantica del rock indipendente statunitense. Intelligenti e creativi, famosi ma non celebrità da tabloid. Erano l’anello mancante tra John e Yoko e Kurt e Courtney, ma senza l’ecumenismo posthippy dei primi e lo sfascio autodistruttivo dei secondi. Erano un prodotto perfetto della scena artistica di New York, nati in quella zona magmatica tra il disfacimento della Factory di Warhol, il Cbgb’s, i locali No wave e le fanzine postpunk: due nobili freak miracolosamente in bilico tra l’estetica post rock e quella delle gallerie d’arte di Lower Manhattan.
La coppia perfetta scoppia nel 2008, per la ragione più banale del mondo, che non ha niente a che vedere con gli eccessi della vita on the road o con l’intellettualismo blasé della scena artistica newyorchese.
Thurston Moore ha un’altra donna. Un’altra più giovane e la vede da anni. E Kim Gordon li becca. All’inizio perdona ma poi, inevitabilmente, dice basta. Lui va a vivere con l’altra ed è la fine dei Sonic Youth. Senza bisogno di pazzi omicidi che ti sparano sotto casa o di drammatici suicidi in garage. Chi immaginava una fine così borghesuccia per una coppia che ha fatto dei rottami del punk rock una specie di monumentale, meravigliosa, scultura di rumore?
Kim Gordon scrive le sue memorie proprio nel momento peggiore. Quello in cui bisogna raccogliere i cocci, come si dice, e ricominciare. È il momento più sbagliato perché è piena di rabbia ma è anche il più giusto perché quello che verrà fuori non avrà nulla di consolatorio. Girl in a band non è stato scritto per spiegare com’è andata (anche se poi alla fine lo fa, e anche con troppi dettagli) ma è stato scritto per spiegarsi, per raccontarsi, per rimettere insieme i pezzi della propria personalità quando ogni certezza sembra essere andata in frantumi.
Girl in a band è un libro che racconta come si diventa un’artista nascendo femmina in una famiglia della media borghesia. Racconta come ci si confronta con gli uomini quando si ha il coraggio di entrare nel loro mondo e come si può trovare la propria voce in mezzo al rumore di fondo che ti circonda quando cresci.
Uno degli aspetti più interessanti del libro è il modo con cui Kim Gordon descrive gli ambienti in cui si è formata. La Los Angeles suburbana dove è cresciuta, una facciata bianca e immacolata che nasconde un deserto arido e putrescente, e la New York della fine degli anni settanta, sporca, pericolosa, marcia ma piena di promesse. Gordon descrive una Los Angeles in cui la luce della California illumina un paesaggio da apocalisse zombi: stucchi finto moreschi in disfacimento, innaffiatoi automatici sempre accesi che non bagnano nulla, canyon selvaggi e pieni di immondizia.
Una Los Angeles che riesce a essere più gotica e nera di qualsiasi Londra, Glasgow o Manchester. E, di contro, una New York vitale ed elettrica, descritta con nostalgia anche nel suo momento di massima pericolosità, piena di locali e gallerie d’arte. Una metropoli che stava vivendo la fine della sua innocenza, prima di trasformarsi nel luna park mangia soldi che è diventata oggi. Forse il prossimo libro di Kim Gordon dovrebbe essere un pamphlet antigentrificazione.
Gordon ha una prosa asciutta e affilata e la freddezza con cui sa descrivere i paesaggi la impiega anche nella descrizione delle persone, in particolare di se stessa. E salta subito agli occhi una caratteristica della sua narrazione e, forse, della sua vita. Sembra sempre sola, perché fin da bambina si sente diversa. Osserva a distanza gli altri combattuta tra il desiderio di giocare con loro e quello di rinchiudersi ancora di più nella sua bolla. La sua alterità le è chiara fin da piccolissima e la sua vita, almeno a giudicare da quello che scrive, è un continuo confronto con figure maschili.
Il fratello Keller, scrive Gordon, l’ha trasformata in quella che è oggi. Keller, l’amatissimo fratello maggiore che la schiacciava, la terrorizzava e le divorava ogni centimetro di spazio vitale. Più tardi si scopre che Keller è schizofrenico e finirà per passare la vita in case di cura. Ma intanto è il primo maschio con cui si confronta, il primo forse a farle capire che le toccherà prendersi i suoi spazi da sola, visto che l’unica cosa che i genitori le dicevano quando lui la tormentava era “E tu reagisci, no?”.
Girl in a band è un libro che nasce da un assunto fortemente femminista, che finisce però per essere molto ambiguo in questo senso. Gordon racconta com’è riuscita a diventare un’artista rock in un mondo dominato dai maschi in una pagina molto rivelatoria, che si può riassumere così: due maschi che stanno insieme, che socializzano, che diventano amici, hanno bisogno di una terza cosa che li unisca, che siano le auto, lo sport, i videogiochi, il punk rock o le donne. Non sono capaci di confrontarsi tra di loro, hanno bisogno di una relazione triangolare con un terzo elemento catalizzante. Kim ha capito come diventare un elemento vitale ma mai passivo di queste triangolazioni maschili.
La tenerezza con cui descrive Kurt Cobain non è stata spesa per nessuna delle donne che ha incontrato
Questo l’ha trasformata in un titano, sempre in lotta da sola e sempre altra. In Girl in a band manca qualunque confronto, condivisione o solidarietà con le altre donne. Gordon parla di Lydia Lunch, di Siouxsie e di Courtney Love, esprime perfino una sorprendente ammirazione per la Madonna newyorchese dei primi anni ottanta. Però nessuna di queste donne ha la tridimensionalità e lo spessore dei tanti uomini che descrive come suoi mentori: da Neil Young, con cui i Sonic Youth sono stati in tour, agli artisti Mike Kelley e Gerhard Richter.
La tenerezza con cui descrive Kurt Cobain non è stata spesa per nessuna delle donne che ha incontrato. Per Kathleen Hanna, fondatrice delle Bikini Kill e sua collaboratrice in diversi progetti, spende parole di grande rispetto ma mai di empatia o di sorellanza. È un po’ straniante notare come il femminismo di Kim Gordon, almeno nelle pagine di questo libro, sia una battaglia così solitaria, così identitaria ma allo stesso tempo così poco politica.
Il libro è stato scritto di getto in un momento molto particolare, forse proprio mentre Gordon si interrogava essenzialmente sulla natura dei suoi rapporti con il mondo maschile. Quindi è ovvio che sia un po’ sbilanciato. La musica per esempio passa in secondo piano rispetto agli altri temi: alcune fasi della parabola artistica dei Sonic Youth sono liquidate in poche righe. Quasi con fastidio.
Nonostante si avventuri in territori intimi e pericolosissimi, il libro di Kim Gordon ha una sua urgenza, che lo rende una lettura essenziale sia per le donne sia per gli uomini. È per metà romanzo di formazione e per metà malinconica descrizione di una sensibilità e di una pratica artistica condannate a sparire, nell’era di frammentazione infinita in cui viviamo.
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