Lancio della campagna “Set her free” a Londra il 29 gennaio 2014 (dalla pagina Facebook di Women for refugee women).
Oggi a Londra si terrà un raduno contro la presenza di donne richiedenti asilo a Yarl’s Wood, il più grande centro di identificazione ed espulsione femminile britannico. Organizzato dall’ong Women for refugee women (Wrw), l’evento fa parte della campagna “Set her free”, che chiede al governo di Londra, e in particolare al segretario di stato per gli affari interni Theresa May, di mettere fine alla detenzione di donne rifugiate (erano duemila nel 2012). “Ogni donna che raggiunge questo paese in cerca di protezione ha diritto alla dignità e a una giusta procedura di asilo”, spiega sul suo sito l’ong, che ha invitato Zadie Smith a visitare Yarl’s Wood. La scrittrice l’ha definito un “incubo a occhi aperti” (s’indovina già dal sito), unendosi all’appello.
Nello stesso periodo in cui Wrw pubblicava il suo rapporto “Detained. Women asylum seekers locked up in the UK”, cinque ong europee presentavano i risultati di uno studio simile. “Point of no return. The futile detention of unreturnable migrants” raccoglie le testimonianze di venti persone che, per un motivo o per un altro (ragioni amministrative, umanitarie o di salute, apolidia…), non possono essere espulse dall’Unione europea. Nonostante questo, tutte sono finite almeno una volta in un centro di detenzione per stranieri, spesso per vari mesi. Gli stati europei, concludono gli autori dello studio, dovrebbero stabilire dei criteri chiari per individuare le persone “non-rimpatriabili” e dar loro dei documenti di soggiorno (temporanei o meno a seconda dei casi).
Le campagne “Set her free” e “Point of no return” cercano di smontare gradualmente l’istituto della detenzione amministrativa degli stranieri. Concentrandosi su determinate categorie di persone, questo approccio permette di raggiungere risultati concreti in tempi più brevi. In Belgio, per esempio, è così che si è arrivati a mettere fine, almeno ufficialmente, alla presenza di minorenni nei centres fermés. Ma distinguendo i detenuti sulla base di criteri come il sesso o l’apolidia, si rafforza l’idea che i Cie a qualcosa servano. E in un certo senso è così, poiché, come ha ammesso di recente il giudice irlandese Gerard Hogan, “purtroppo deve esistere un sistema di espulsione perché possa esserci un sistema di asilo”. Viva la sincerità.
Negli ultimi anni la questione dei Cie è uscita dall’ombra, rivelando i limiti della distinzione tra “migranti” e “rifugiati”, rivelando anche la rabbiosa paura di tanti europei, che continuano a distinguere “noi” e “loro”, gli “illegali”, come fossimo nel Mississippi degli anni cinquanta, dove si temeva che “loro” avrebbero rubato i posti di lavoro, se prima non ti ammazzavano dato che “loro” erano tutti criminali, e insomma, era la legge che stabiliva che “loro” dovevano avere meno diritti, no? Intanto, come scrive Mariangela Paone in una recente inchiesta uscita su El País, l’Europa non solo ha bisogno di immigrati, ma presto dovrà “competere con paesi come Cina, India, Turchia, Brasile o Marocco per attirarli”.
**Tutti questi temi **sono collegati, vanno esaminati in un’ottica globale e tendono verso un principio di cui sentiremo parlare sempre più spesso: la libertà di movimento. Ne parlava nel 2007 l’Unesco in uno studio intitolato Migration without borders e, l’anno seguente, il movimento francese Utopia nel suo Manifesto (un’edizione aggiornata è uscita nel 2012, la parte sulla libera circolazione comincia a pagina 202). Utopia è una delle tre associazioni che hanno dato vita all’Organizzazione per la cittadinanza universale (Ocu) nel febbraio del 2013, dopo aver presentato il progetto al Forum sociale di Dakar del 2011 e a quello di Manila del 2012. L’Ocu propone di istituire un nuovo tipo di passaporto, che dovrebbe permettere di entrare e stabilirsi in un paese senza bisogno di visto e godendo degli stessi diritti economici e sociali dei cittadini di quel paese. L’Ocu chiede inoltre alle Nazioni Unite di organizzare una conferenza internazionale sulla libertà di circolazione e di soggiorno. Stéphane Hessel è stato tra i primi a credere in questo progetto (qui la lista sostenitori). Di libera circolazione parlano anche gli autori della Carta di Lampedusa, approvata il 1 febbraio, e i sans-papiers e rifugiati che a giugno marceranno da Strasburgo a Bruxelles in occasione della Carovana per l’uguaglianza e la giustizia sociale, un’iniziativa lanciata da vari collettivi in Germania, Francia, nei Paesi Bassi e in Italia.
In Italia poi ne parlano un po’ tutti, da quando gli svizzeri hanno osato negarcela.
Francesca Spinelli è giornalista e traduttrice. Vive a Bruxelles e collabora con Internazionale. Su Twitter: @ettaspin
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it