Dal 13 al 17 luglio si è svolto a Bruxelles il decimo round dei negoziati sul Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (Ttip), l’accordo di libero scambio tra Stati Uniti e Unione europea che alcuni paragonano a un cavallo di Troia guidato dalle grandi aziende.

Una volta ratificato, regalerebbe a queste una serie di agevolazioni, tra cui: la possibilità di citare uno stato davanti a un collegio di arbitri invece che in un tribunale ordinario se l’azienda ritiene di poter essere danneggiata dalle politiche di quello stato (il cosiddetto Investor-state dispute settlement, o risoluzione delle controversie tra stato e investitore, Isds); l’accesso al mercato dei servizi pubblici di tutti i paesi firmatari; una deregolamentazione in vari settori, da quello ambientale a quello agroalimentare, definita diplomaticamente “cooperazione in campo normativo”.

L’imponente versione gonfiabile dell’infido equino è la star delle proteste antiTtip. Il 15 luglio è apparso nella strada di Bruxelles dov’erano in corso i negoziati, circondato da slogan come “Earth is flat, pigs can fly, Ttip is great”, “La terra è piatta, i maiali volano, il Ttip è un gran cosa”. Il messaggio di lavoratori e consumatori, sulle cui spalle ricadrebbero gli effetti devastanti dell’accordo, è questo: non ci faremo prendere in giro.

Come dopo ogni round di trattative, la Commissione europea, che ha ricevuto dagli stati membri il mandato di negoziare il Ttip, pubblicherà un resoconto sintetico delle discussioni. Sul suo sito sono disponibili molti altri documenti, tanto che il 7 luglio la commissaria per il commercio Cecilia Malmström ha dichiarato al parlamento europeo: “Sono felice di poter dire che quelli sul Ttip sono i negoziati su un accordo bilaterale di libero scambio più trasparenti del mondo”.

Il cavallo di Troia gonfiabile durante una protesta contro il Ttip a Bruxelles, in Belgio, il 15 luglio 2015. (Thierry Roge, Afp)

Cambiare strategia

Non sappiamo se sia davvero così, ma di sicuro sono quelli su cui una delle parti coinvolte – la Commissione europea – si sforza di comunicare di più. Non lo sta facendo di sua spontanea iniziativa. I negoziati sono infatti cominciati in sordina, nel luglio del 2013, dopo una lunga fase preparatoria in cui la direzione generale per il commercio della Commissione europea ha incontrato a più riprese i rappresentanti dei gruppi di pressione industriali.

Secondo alcuni dati pubblicati di recente, tra gennaio del 2012 e giugno del 2013 la direzione generale ha avuto 331 di queste riunioni, contro appena tredici incontri sul Ttip con i rappresentanti della società civile (principalmente dei sindacati, evidentemente i più informati).

Dall’insediamento di Juncker non c’è comunicato ufficiale sul Ttpi che non contenga la parola ‘trasparenza’

Dimostrando di non aver imparato la lezione del trattato multilaterale Acta (Accordo commerciale anticontraffazione), bocciato dal parlamento europeo nel luglio 2012 dopo un’accesissima battaglia, la Commissione ha quindi avviato i negoziati sul Ttip con grande discrezione adeguandosi all’approccio del governo statunitense, che considera aberrante coinvolgere i cittadini su una questione del genere.

Le prime ondate di critiche l’hanno convinta a cambiare strategia e, soprattutto dall’insediamento della Commissione Juncker nel novembre del 2014, non c’è comunicato ufficiale sul Ttip che non contenga la parola magica “trasparenza”.

Comunicare, però, non vuol dire essere trasparenti, come ha sottolineato all’inizio del 2015 la mediatrice dell’Unione europea, Emily O’Reilly.

Pur riconoscendo gli sforzi di Malmström e colleghi, O’Reilly ha ricordato alla Commissione che “il diritto dei cittadini europei ad avere accesso ai documenti in possesso delle istituzioni europee è un diritto fondamentale. Serve ad assicurare che i cittadini possano partecipare ai processi decisionali dell’Unione europea e che possano chiamare l’Unione europea e le sue istituzioni a rendere conto del loro operato”.

Quanto sono trasparenti, adesso, i negoziati sul Ttip? “I documenti più interessanti restano inaccessibili”, mi spiega Lora Verheecke di Corporate Europe observatory (Ceo), un osservatorio delle attività di lobbying aziendale presso le istituzioni europee. Ceo è una delle tante organizzazioni che, da un lato e dall’altro dell’Atlantico, si oppongono al Ttip. Dal 13 al 15 luglio si sono date appuntamento a Bruxelles per fare il punto sulla loro campagna, proprio mentre i negoziatori statunitensi ed europei procedevano nelle discussioni su alcuni dei ventiquattro capitoli che formano il trattato.

“In rete si trovano solo alcune delle posizioni ufficiali dell’Unione europea, non quelle degli Stati Uniti né tanto meno i cosiddetti testi consolidati”, ovvero le parti del trattato su cui le due squadre di negoziatori raggiugono via via un accordo.

Per i cittadini europei e statunitensi le fughe di notizie sono l’unica fonte di informazioni sui negoziati

Oggi solo un numero ristretto di persone (alcuni dipendenti pubblici e membri dei governi degli stati membri, alcuni funzionari della Commissione e, dal novembre del 2014, tutti gli eurodeputati) ha accesso ai testi consolidati, ma solo in alcune sale di lettura approvate dal governo statunitense.

È permesso prendere appunti con carta e penna (tranne agli eurodeputati) ma non condividere il contenuto dei documenti. Una situazione che innervosisce parecchie persone, tra cui il presidente del Bundestag (il parlamento federale tedesco) Norbert Lambert, che il 18 luglio ha scritto all’ambasciatore statunitense a Berlino chiedendo l’accesso ai documenti per tutti i parlamentari tedeschi.

“La stessa segretezza circonda gli incontri con i lobbisti”, osserva Verheecke. La mediatrice europea O’Reilly aveva invitato la Commissione a pubblicare tutti i documenti relativi alle riunioni dei suoi funzionari sul Ttip, compresi gli ordini del giorno e i verbali. La Commissione ha rifiutato, e così Verheecke e i suoi colleghi continuano a presentare richieste di accesso ai documenti, che non sempre vengono accolte.

Per farvi un’idea della trafila, potete dare un’occhiata all’elenco di richieste relative al Ttip sul sito Asktheeu.org. Molte sono state fatte da Ceo. In altre parole, per i cittadini europei e statunitensi le fughe di notizie sono l’unica fonte di informazioni sui negoziati. L’associazione tedesca Correct!v pubblica regolarmente dei documenti confidenziali sui negoziati raccolti attraverso una dropbox anonima, e lo stesso fa Ceo sul suo sito.

Consultare senza ascoltare

Come non ha dato seguito alle raccomandazioni della mediatrice europea, così la Commissione ha lasciato cadere nel vuoto i risultati della consultazione pubblica sull’Isds che ha lanciato, controvoglia, nel 2014. La Commissione chiedeva ai cittadini di aiutarla a definire un sistema equilibrato di composizione delle controversie tra investitori e stati, ma la maggior parte dei 150mila contributi ricevuti è andata in un’altra direzione: non è né giusto né necessario offrire un trattamento speciale agli investitori in questo tipo di controversie. Le aziende possono benissimo rivolgersi ai tribunali ordinari nazionali.

“I trattati che creano i diritti degli investitori stranieri risalgono agli anni sessanta del novecento, all’epoca della decolonizzazione”, ha spiegato Gus Van Harten, professore di diritto alla York university di Toronto, in un’intervista del 2014. “I loro effetti si sono concretizzati negli anni novanta con l’esplosione delle vertenze. Potrò sembrare allarmista, ma la rapida espansione del sistema, in larga misura a discrezione degli arbitri, ha alterato la sovranità come l’abbiamo conosciuta per secoli nel mondo sviluppato e com’è conosciuta in gran parte del mondo in via di sviluppo dall’epoca coloniale” (per i più appassionati, ecco il contributo di Van Harten alla consultazione pubblica).

“È vero, la Commissione ha ignorato i risultati della consultazione pubblica”, riconosce Verheecke, “ma l’iniziativa ha permesso di mostrare la varietà delle posizioni nel campo contrario all’Isds. La Commissione ci presenta tutti come degli esaltati di estrema sinistra, e invece non è così. Tra i contributi che ha ricevuto c’erano quelli della Baviera, della Federazione francese degli operatori telecom, della Federazione delle piccole e medie imprese tedesche e della Federazione austriaca delle autorità locali. Ci sono molti attori economici e sociali preoccupati, se non dall’intero Ttip, quanto meno dall’Isds”.

Una protesta contro il Ttip nel Parlamento europeo a Strasburgo, in Francia, il 7 luglio 2015. (Vincent Kessler, Reuters/Contrasto)

Intanto continua la raccolta firme contro il Ttip e il Ceta (Accordo economico e commerciale globale), il trattato di libero scambio tra Unione europea e Canada che, superata la fase dei negoziati, è ora passato a quella del legal scrubbing (esame giuridico).

La petizione per la quale si raccolgono le firme è un po’ particolare. I promotori hanno voluto usare lo strumento del Diritto d’iniziativa dei cittadini europei, introdotto dal trattato di Lisbona, che “consente a un milione di cittadini europei di prendere direttamente parte all’elaborazione delle politiche dell’Ue, invitando la Commissione europea a presentare una proposta legislativa”.

Basta creare un comitato organizzatore, proporre un’iniziativa in un campo di competenza dell’Ue e raccogliere in meno di un anno un milione di firme in almeno sette stati membri. A quel punto la Commissione è obbligata a esaminare la proposta e a spiegare perché accetta o meno di darle seguito.

La Commissione ha però rifiutato di registrare l’iniziativa “Stop Ttip & Ceta” sostenendo che “la proposta d’iniziativa esula manifestamente dalla competenza della Commissione di presentare una proposta di atto legislativo dell’Unione ai fini dell’applicazione dei trattati”. La Commissione sembra dimenticare un’altra sua competenza, quella di inviare al Consiglio dell’Unione europea raccomandazioni e comunicazioni sugli argomenti più diversi: proprio quello che i promotori di “Stop Ttip & Ceta” le chiedono di fare (“raccomandare al Consiglio dell’Ue di revocare il mandato per il Ttip e di non concludere il Ceta”).

Il rifiuto della Commissione, scrivono, è un “evidente tentativo di zittirci”:

Abbiamo reagito in due modi: in primis, stiamo facendo ricorso contro la decisione della Commissione presso la Corte europea di giustizia. In secondo luogo, stiamo portando avanti la nostra Iniziativa dei cittadini europei senza il nullaosta di Bruxelles. Chiamiamo ciò un’Iniziativa autonoma dei cittadini europei perché, fondamentalmente, seguiamo le regole di un’iniziativa ufficiale, ma senza un’approvazione ufficiale. Crediamo che, in quanto cittadini europei, sia nostro diritto democratico poterci esprimere su questioni che ci coinvolgono.

Al 23 luglio erano state raccolte quasi 2,4 milioni di firme. Gli organizzatori sperano di raggiungere il traguardo dei tre milioni entro ottobre. Resta da vedere cosa succederà dopo il termine della raccolta firme.

Zone libera dal Ttpi

“Stop Ttip & Ceta” è una delle tante iniziative che formano la galassia contro il Ttip, dalle proteste nazionali e internazionali alle mozioni approvate dai comuni di diversi paesi europei per dichiararsi “zone libere dal Ttip”. Tra le azioni più recenti c’è la campagna Artists against Ttip, nata a giugno di quest’anno, mentre una delle prime iniziative, e anche una delle più interessanti, potrebbe presto essere rilanciata: si tratta del Mandato commerciale alternativo, ideato da oltre cinquanta organizzazioni europee nel 2013 e da allora finito nel dimenticatoio.

In rete si trova ancora la presentazione di questa “visione alternativa delle politiche commerciali europee, in cui le persone e l’ambiente vengono prima della grande industria”.

“Il sito dell’Alternative trade mandate invece non è più attivo, ma all’epoca era stato fatto un grosso lavoro”, spiega Verheecke, “e proprio in questi due giorni di incontri con le altre organizzazioni del fronte antiTtip si è parlato di rilanciare l’iniziativa. Ci rendiamo conto che è importante proporre un’alternativa, ma la verità è che siamo molto presi dal lavoro di denuncia dei negoziati”.

Altrettanto importante è la cooperazione con le organizzazioni statunitensi e canadesi. Tramite Verheecke ho conosciuto Denise Gagnon, che alla due giorni antiTtip rappresentava il Réseau québécois sur l’intégration continentale. “Il nostro equivalente al livello canadese è il Trade justice network. Come sai il Québec e il Canada sono due mondi diversi”, ci tiene a precisarmi sorridendo. L’obiettivo del Ceta, mi spiega Gagnon, è spianare la strada, attraverso la deregolamentazione, alle aziende canadesi in Europa e a quelle europee in alcune province canadesi, in particolare il Québec, “considerato un covo di socialisti”.

“Da anni mettiamo in guardia i colleghi europei contro questa nuova generazione di accordi commerciali, che si spingono molto più lontano del Nafta (North american free trade agreement), aprendo alle grandi aziende i mercati pubblici, anche quelli provinciali e municipali”, osserva Denise. “Appena apriamo bocca ci accusano di essere dei protezionisti nemici del libero scambio, ma noi non siamo contro il libero scambio, siamo contro questo modello di libero scambio, che non rispetta i diritti dei cittadini e dei lavoratori”.

Non è ancora chiaro se il Ttip dovrà essere approvato dai parlamenti nazionali

Il Ceta sarà al centro della campagna elettorale per le elezioni politiche canadesi del prossimo 19 ottobre. Il governo guidato dal conservatore Stephen Harper è stato deludente su molti fronti e punta sull’accordo per non perdere la sua base elettorale, ma i sondaggi per ora danno in vantaggio i democratici.

“Sul Ceta non si sono schierati in modo netto”, spiega Gagnon. “Si sono limitati a dire che l’Isds va rivisto”. Intanto il Bloc québecois guadagna consensi e “sicuramente denuncerà il Ceta, perché limita la sovranità del Québec. Il che vuol dire che i democratici, se vogliono mantenere un buon risultato in Québec, dovranno prendere posizione. Ma per ottenere la maggioranza dovranno tenersi buona anche la provincia dell’Ontario, che è la Wall street canadese… Insomma, la loro è una posizione delicata”.

Autunno caldo

Tra settembre e ottobre, il prossimo round dei negoziati sul Ttip e l’ultima fase della campagna elettorale canadese coincideranno con un’ondata di proteste internazionali contro i due trattati, tra cui una giornata antiCeta il 25 settembre e una settimana europea contro il Ttip e il Ceta dal 10 al 17 ottobre. A Bruxelles sono già previsti due appuntamenti: una grande manifestazione il 15 ottobre e un campo No Ttip dal 13 al 17 ottobre.

Come finirà, almeno in Europa, questa battaglia? I negoziati sul Ttip andranno avanti ancora a lungo e le proteste aumenteranno la pressione sugli stati membri e sugli eurodeputati.

Dalle informazioni che filtrano sappiamo che i governi europei non sono affatto uniti sulle molteplici misure previste dall’accordo (la Francia, che aveva ottenuto l’esclusione del settore audiovisivo dal trattato in nome dell’eccezione culturale, continua a mostrarsi particolarmente battagliera), ma è improbabile che revochino o modifichino il mandato assegnato alla Commissione.

Non è ancora chiaro se il Ttip dovrà essere approvato dai parlamenti nazionali. Questo passaggio è necessario quando gli accordi commerciali negoziati dalla Commissione sono misti, ovvero comprendono disposizioni di competenza europea e nazionale.

Sul suo sito la Commissione lascia intendere che i parlamenti nazionali non saranno consultati sul Ttip, ma la cosa non deve risultare evidente a tutti se appena un mese fa l’eurodeputata croata Dubravka Šuica, del Partito popolare europeo, rivolgeva alla Commissione un’interrogazione parlamentare proprio su questo punto (la risposta non è ancora arrivata).

Secondo un recente studio firmato da Anna Eschbach, ricercatrice all’università di Colonia, l’approvazione dei parlamenti nazionali, tanto sul Ttip quanto sul Ceta, “sarà probabilmente necessaria in tutti gli stati membri tranne Malta”. Inoltre tredici paesi su ventotto potrebbero sottoporre i due trattati a un referendum (in Italia non sarebbe possibile).

Rimagono gli eurodeputati che, come insegna la vicenda Acta, hanno il potere di mandare in fumo anni di negoziati e di lobbying se si convincono che il risultato non è nell’interesse dei loro elettori.

L’8 luglio 2015, approvando una risoluzione non vincolante sul Ttip, una buona parte del parlamento europeo ha di fatto promosso il lavoro della Commissione, pur facendole qualche raccomandazione.

Il socialista tedesco Martin Schulz ha tuttavia ricevuto pesanti critiche dai Verdi europei e dalla società civile per essere uscito dal suo ruolo di presidente del parlamento europeo favorendo in modo esplicito e scorretto le proposte della destra e del centrodestra e sabotando un emendamento contrario all’Isds. Malgrado le sue pressioni, “gli eurodeputati socialisti di alcuni paesi hanno dato retta all’opinione pubblica”, sottolinea Verheecke. “I socialisti francesi e belgi hanno votato tutti contro la risoluzione, come anche i socialisti britannici, tranne uno”.

Ispirandosi al successo della mobilitazione contro l’Acta, associazioni come Ceo incoraggiano i cittadini europei a contattare i loro eurodeputati per esprimere la loro opposizione al Ttip. “Ma è ancora presto per concentrare tutte le nostre energie sul parlamento europeo”, conclude Verheecke. “Anche nel caso dell’Acta, la campagna si è fatta più intensa quando il testo dell’accordo è passato all’esame degli eurodeputati. E per ora non sappiamo ancora quando succederà, né per il Ttip né per il Ceta”.

In passato altre grandi mobilitazioni hanno impedito che vedessero la luce accordi commerciali giudicati contrari all’interesse dei cittadini, dall’Area di libero scambio delle Americhe all’Accordo multilaterale sugli investimenti, dal Millenium round promosso dall’Organizzazione mondiale del commercio all’Acta.

Oggi il Ttip e il Ceta suscitano sempre più l’interesse dei cittadini, che usano gli strumenti a loro disposizione per farsi sentire su questi accordi. La Commissione dovrebbero rallegrarsene: qualunque sia l’esito dei negoziati, avranno contribuito a rafforzare la partecipazione democratica alla vita dell’Unione. Non è questa una delle sue priorità?

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