“La libertà di cantare e di pensare, sembra che ci sia una censura in questo paese. Sembra che il gallo non possa più risvegliare le coscienze”, dice un tipo a una signora anziana. “Mi piace dare, non ricevere”, dice poco dopo quest’ultima al pompiere, venuto a raccogliere il suo sostegno, e al quale fa un grazioso regalo. Un’anziana donna che la polizia vuole costringere a eliminare il proprio gallo. “Purtroppo oggi sono pochi gli uomini che capiscono la lingua degli animali, al contrario di sua eccellenza”, dirà poco dopo una voce fuori campo, splendida voce narrante, che come spesso accade con il portoghese, pare cantato e quasi ipnotico nella sua dolcezza, come in diversi film di Manoel De Oliveira, per citare solo lui.
Una scena di Inquieto, primo episodio della trilogia di Miguel Gomes, Le mille e una notte.
Queste frasi sono estratte da Inquieto, primo episodio (o volume) della trilogia Le mille e una notte. Arabian nights, dovuta al portoghese Miguel Gomes, che arriva nelle sale italiane. Quello di Gomes è diventato il film evento dell’ultimo festival di Cannes, basta vedere le recensioni di Le Monde e Libération, la loro ampiezza e il loro tono. Ha generato un passaparola tra giornalisti e critici di ogni parte del mondo fin dal momento della sua proiezione alla Quinzaine des réalisateurs. La sua uscita in Francia è stata accompagnata da un vero bombardamento mediatico e critico, e anche se l’operazione non è integralmente riuscita rispetto alle ambizioni dei produttori, si è rivelata comunque un evento forte. I Cahiers du cinéma lo hanno definito “un film-mostro, quanto un film-mondo”.
Tra due rive, tra due mondi
Mostro, perché si tratta in realtà di una trilogia di sei ore presentata integralmente a Cannes e ora distribuita anche in Italia (ecco il calendario delle proiezioni). Mondo perché ci sono mischiati attori e gente comune, giornalisti, fiaba e documentario, poesia e denuncia, che trasformano in un unico mondo il triste grigiore dei licenziati, dei disadattati o dei contadini nel Portogallo oppresso dalla troika e quello di una fiaba arcaica di derivazione pasoliniana. Un unico mondo, osmotico, di poesia atemporale. Si è sospesi dall’inizio alla fine in questa incredibile trilogia. La carrellata laterale dalla barca verso il molo dove sfilano le silhouette dei marinai e degli operai rimasti a riva segue il movimento delle onde, enunciando tono e struttura del film, il suo galleggiamento aereo dominante anche se non ferreo, i suoi movimenti di camera ampi quanto i tagli di inquadratura oltre al formato stesso scelto dal regista, quasi da cinemascope. Enuncia il suo essere ironicamente distaccato e pienamente coinvolto, il suo essere tra due rive, due mondi, e farne appunto un tutt’uno, grazie al suo essere inquieto. Nel senso pieno della parola poiché l’inquieto è chi oscilla tra quel che è più rassicurante e quel che è più disturbante, magari non riuscendo sempre a dominare questa oscillazione. E proprio grazie a questa oscillazione, accettandone la dominazione ma senza esserne succube, Gomes produce un capolavoro.
La dimensione sciamanica, intesa nel senso di auscultazione dell’altro e della dimensione primigenia e animista, fanno qui tutt’uno e sono una splendida filiazione con alcuni esempi del cinema d’autore più originale, più complesso, più potente, che spesso arriva dall’estremo oriente e che altrettanto spesso da noi rimane inedito o poco visibile. Una certa maniera aerea di filmare frontalmente un uomo a bordo di un motorino negli ambienti urbani richiama il cinema di Hou Hsiao-hsien, soprattutto quello più autobiografico, tragicamente poco noto da noi. Il grande regista di Taiwan è tra i pochi contemporanei all’altezza di grandi autori del passato, come Bergman o Antonioni, a cui tanto si richiama. Ma per il tipo di regia, la prossimità con Antonioni, il legare bellezza dell’arcaismo e scontro-incontro con la modernità, sciamanesimo e animismo in maniera quasi fatata e racconti, magie e dolori della povera gente, si pensa anche al tailandese Apichatpong Weerasethakul, palma d’oro a Cannes 2010 per Zio Boonmee che ricorda le vite precedenti. E non a caso Gomes ha voluto con sé Sayombhu Mukdeeprom, lo straordinario direttore della fotografia di Weerasethakul, che nella trilogia ha collaborato con Lisa Persson e Mário Castanheira.
Non vi spaventate. Lasciate sedimentare lentamente il film, come accadeva per altri sogni anarchici, liberi, come Otto e mezzo di Fellini o Strade perdute di Lynch. Sono film che hanno bisogno di esser visti e rivisti, magari estrapolando certe sequenze, più oniriche di altre. O più umane di altre. E con il film cosmopolita di Gomes lo spettatore può sognare in maniera potente se non si lascia spaventare dalla lunghezza o dalla sua forma inusitata. Perché questo film è un’utopia, in cui convivono stili vecchio e nuovo. L’apatia, l’arrendersi facilmente contribuisce a quell’assenza di salvifica tensione ideale, anche perché contribuisce a stemperare l’altra tensione, quella della paura, che le destre conservatrici sfruttano senza remore. Mentre quella che viene denominata sinistra progressista troppo spesso si arrende allo sfruttamento dell’apatia per promuovere regressione sociale in un circolo vizioso. Le mille una notte versione Miguel Gomes sembra dirci tra le righe proprio questo.
Trilogia di denuncia
“Il personaggio principale è la comunità”, titola l’intervista dei Cahiers al regista, e Le mille e una notte è chiaramente una trilogia di denuncia, ma che non cade mai nelle ovvietà, nelle pesantezze didascaliche del genere. Troppo spesso quello di denuncia è un cinema dell’evidenza e non della finezza, della profondità, della poesia. Come invece è il cinema di Gomes, grande regista della provincia portoghese e della sua umanità (ma privo di retorica) e anche autore di film fondamentali (purtroppo inediti in Italia) come Tabu, splendida opera onirica sugli orrori e la tragica farsa grottesca del colonialismo (e del suo immaginario). Qui, tre giornalisti licenziati perché non scrivevano quanto dovevano, intervistano la gente comune sparsa in tutto il Portogallo, uno dei paesi investiti dalle sacre leggi della troika, imposte da istituzioni finanziarie che dominano su governi democraticamente eletti ma pagate anche da quei contribuenti. Così il popolo filmato con infinita umanità ma anche grande ironia e poesia, recepisce e vive sulla propria pelle questa situazione, poiché il tono aereo non impedisce all’opera di entrare nel dolore, nella carne viva della gente comune, gente umile ma umanamente vera, spesso intensa e degnissima.
Al tempo stesso il saper filmare e raccontare il dolore, chiedendo allo spettatore di saperlo guardare, non impedisce a Gomes di regalarci un festoso film pop, spiritoso, totalmente libero, quasi una rivisitazione psichedelica delle Mille e una notte di Pasolini, una metafora della bellezza potenziale della vita, un racconto arcaico e insieme moderno con cui si prende anche gioco degli avvizziti alti tecnocrati i quali, parafrasando il celebre discorso di Robert Kennedy sul pil, sembrano saper misurare tutto della tecnica monetaria e finanziaria fuorché quel che rende la vita degna di essere vissuta. Il regista li mette allora alle prese con un’erezione perdurante, un incantesimo provocato da uno stregone nero uscito dritto dalle fiabe persiane e che per revocarlo chiede tre miliardi e novecento milioni.
Siamo dalle parti del surrealismo politico e provocatorio, tra Luis Buñuel e Marco Ferreri (grande regista, quest’ultimo, chissà perché dimenticato anche se ce ne sarebbe gran bisogno), ben più credibile di quello di The lobster di Yorghos Lanthimos, regista non del tutto privo d’interesse ma afflitto da una pesantezza iper-estetica, algida e in qualche modo fighetta. Qui tutto è raffinato e semplice, paradossale e umano. Come in quella splendida sequenza dove l’anziana ma gioiosa e arzilla signora di cui dicevamo in apertura, rivela di aver votato per tutti quanti così tutti sono felici: atto populista e qualunquista o atto iconoclasta di chi non si sente più rappresentato e vede il rito del voto come una inutile recita?
Per concludere, lasciatevi avvolgere dai colori caldi, sensuali e pittorici che il regista ha definito con il direttore della fotografia di Weerasethakul, dal galleggiamento da trip anni settanta, assorbite il tutto come spugne e lasciate fermentare i semi di questo film libero, che vuol riaprire, riallargare la linea dell’orizzonte o l’ampiezza del quadro cinematografico insieme a quello sociale, proprio come faceva il protagonista di Mommy di Xavier Dolan, un ragazzo che compiva una fatica da Sisifo per superare il proprio quadro, ristretto dal sociale, per aprire e liberare il proprio campo d’orizzonte.
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