Una famiglia si riunisce per celebrare un parente defunto. In Sieranevada, che apre il concorso del festival di Cannes, si riconosce lo stile di scrittura di sceneggiatura e di regia del romeno Cristi Puiu, autore del teatrale La morte del signor Lazarescu, la sua capacità di innestare dialoghi dell’assurdo in un registro realistico facendo così venire il dubbio allo spettatore che la realtà sia assurda. Non stupisce quindi che tra i produttori del film figuri Lucian Pintilie, figura storica del cinema d’autore romeno, noto per il suo delicato tocco surreale. Ma qui, della sua altrettanto notoria leggerezza non c’è traccia.

O meglio, nelle quasi tre ore di durata (due ore e 53 minuti per l’esattezza), buona parte delle sequenze di Sieranevada prese singolarmente avrebbero questa connotazione. Puiu riesce a dare autenticità e credibilità alle varie situazioni che si succedono in questo dramma familiare da camera (anzi, di camere).

Qualcosa non va

La sfida per il regista è tenere ancorato lo spettatore filmando quasi per intero nelle mura di casa, dove poco a poco un’identità, quella di Lary, l’anziano protagonista maschile, viene fatta a pezzi (metafora che si presta a varie interpretazioni). E il procedimento che ha scelto è di filmare quasi tutte le sequenze con la cinepresa posizionata poco al di fuori della stanza dove si svolge l’azione, stanza sempre “inquadrata” dalle cornici delle porte, con inquadrature spesso oblique. E anche nei pochi momenti in cui il procedimento è un altro si respira un’aria costretta, asfittica, limitata.

C’è molta finezza, ma in massima parte è cerebrale, senza paesaggio

Situazioni ideali per far uscire fuori tutto il represso, il non detto, le frustrazioni, e far traballare la figura di riferimento. O i punti di riferimento. Ma questo procedimento alla lunga spinge alla noia se non all’insofferenza. Dai procedimenti costrittivi bisogna saper far fiorire qualcosa di molto forte, che esca appunto dall’interiorità: allora il procedimento sarà servito a dare maggior forza all’epifania rivelatrice. Il disegnatore Lorenzo Mattotti diceva (citiamo a memoria), riferendosi al cinema dell’amato Tarkovskij, che bisogna saper soffrire e accettare di percorrere una parte di terra impervia per accedere alla rivelazione della parte gratificante. E avere così l’illuminazione. Ma se si scala una montagna e poi in cima non c’è nulla, nessun paesaggio, e lungo la scalata siamo inondati d’informazioni scientifiche, allora qualcosa non va.

Qui c’è molta finezza, ma in massima parte è cerebrale, senza paesaggio. Ed è un vero peccato. Perché il film è anche una straordinaria rappresentazione della Romania di ieri e di oggi, un affresco e uno scontro tra dimensioni della storia che restano irrisolte. E questo vale per tutti perché Sieranevada parla anche di noi e dei nostri tempi. Tutti i dialoghi restano sospesi, rinchiusi in stanze mentali, inconcludenti. Né così stupidi come si potrebbe credere né particolarmente intelligenti. Ma alla fine tutto evapora nell’inconsistenza.

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