Roma è lontana, lontanissima dall’America Latina profonda visitata nell’arco di una settimana da papa Francesco. Montagne e foreste tropicali, deserti, indigeni, contadini, città marginali negli scenari contemporanei come Quito, La Paz, Asunción, capitali che raramente fanno, come si dice, notizia. Eppure è in questa porzione di mondo in cui si parlano decine di idiomi, in cui coesistono gruppi etnici diversi ma ci si capisce universalmente in spagnolo, in cui la natura conosce varietà sorprendenti, che il papa ha rotto definitivamente gli argini della clausura europea per la chiesa, una chiesa dal volto cupo e ieratico, nostalgico e triste, di chi vive la stagione del declino e del rimpianto.

Francesco è andato nel cuore del “cono sud”, quello più povero e periferico e lo ha descritto come modello per “la patria grande”, il sogno bolivariano dell’integrazione latinoamericana, e per il mondo globalizzato. Popoli, culture e natura vivono in un delicato e prezioso equilibrio fra loro – è il caso della Bolivia e dell’Ecuador – e i leader figli di queste terre, i politici anomali Evo Morales e Rafael Correa, sono interlocutori reali, e se pure commettono errori o incontrano difficoltà nel tentativo di costruire una società più giusta – è stato il messaggio di Francesco – hanno lo stesso rango dei politici dei Paesi ricchi e vanno ascoltati perché rappresentano il mondo nuovo sorto progressivamente in questi decenni in cui la democrazia, e quindi la voce degli esclusi, o degli “scartati” per dirla con Bergoglio, ha cominciato a farsi strada in America Latina dopo l’epoca delle dittature spietate, come quella del Paraguay pure visitato dal papa.

Gli effetti di questa trasferta sudamericana sono destinati a lasciare il segno anche dentro la chiesa

E se ora Francesco tornerà inevitabilmente in un Vaticano che fin dal principio del suo pontificato ha fatto capire di amare poco, gli effetti di questa trasferta sudamericana sono destinati a lasciare il segno anche dentro la chiesa. Se insomma da una parte il pontefice argentino è diventato punto di riferimento per una vasta area di movimenti e personalità della cultura critici verso un modello economico incapace di comprendere al suo interno le comunità, la terra, il senso di solidarietà, la pluralità delle culture e la biodiversità intesa come bene comune, e quindi diritto umano non alienabile da soggetti privati, su un altro versante, quello del cattolicesimo, siamo di fronte a un momento di svolta.

Il doppio “mea culpa”

È nel corso dell’incontro con i movimenti popolari svoltosi in Bolivia che il papa ha detto parole importanti sul ruolo e la storia della chiesa. Ricollegandosi ai “mea culpa” di Wojtyla, Bergoglio ha chiesto perdono “per i crimini commessi contro le popolazioni indigene durante la cosiddetta conquista dell’America”. A questo punto però ha aggiunto un’osservazione significativa: “Insieme a questa richiesta di perdono, per essere giusti, chiedo anche che ricordiamo migliaia di sacerdoti e vescovi, che si opposero fortemente alla logica della spada con la forza della croce. Ci fu peccato, ci fu peccato e fu abbondante, e per questo chiediamo perdono, e chiedo perdono, però là, dove ci fu il peccato, dove ci fu abbondante peccato, sovrabbondò la grazia mediante questi uomini che difesero la giustizia dei popoli originari”.

Francesco ha poi messo in luce l’impegno di tutti quei religiosi, suore e laici “che anonimamente percorrono i nostri quartieri poveri portando un messaggio di pace e di bene, che nel loro passaggio per questa vita hanno lasciato commoventi opere di promozione umana e di amore, molte volte a fianco delle popolazioni indigene o accompagnando i movimenti popolari anche fino al martirio. La chiesa, i suoi figli e figlie, sono una parte dell’identità dei popoli dell’America Latina”.

È possibile leggere in queste frasi una sorta di secondo “mea culpa”, questa volta tutto interno a una chiesa che aveva negato o rimosso o emarginato, i sacerdoti e i vescovi uccisi perché difendevano gli ultimi? Siamo insomma di fronte alla riabilitazione di una storia trattata per lunghi decenni come fosse un fiume secondario e ambiguo del cristianesimo moderno? È recente la beatificazione del vescovo del Salvador Óscar Arnulfo Romero, vittima degli squadroni della morte e delle oligarchie locali, così come l’apertura della causa di beatificazione di monsignor Enrique Angelelli, ucciso dai militari in Argentina.

Sembra emergere e assumere pienezza una controstoria della chiesa, quella di chi si è schierato dalla parte degli indios e degli oppressi

Ma le parole del papa dicono appunto qualcosa in più: sembra infatti emergere e assumere pienezza una controstoria della chiesa, quella di chi si è schierato dalla parte degli indios e degli oppressi; è la spinta a riscrivere la storia ufficiale, a definire un nuovo paradigma entro il quale collocare l’evoluzione del cristianesimo. Non si tratta più, dunque, di sottolineare solo l’importanza del singolo martire o del sacrificio di un prete, di una suora, di un laico, è piuttosto l’ingresso, nella storia del cattolicesimo moderno, di quella opzione preferenziale per i poveri, punto d’arrivo del riformismo conciliare in America Latina, che vuole porsi non più sotto ma a fianco, con pari dignità, della tradizione europea. È quindi il “poliedro” bergogliano, preferito alla globalizzazione uniformante, che diventa categoria per leggere anche la fede cattolica, fede per l’appunto universale (cioè non solo, o non innanzi tutto, europea).

Fine della guerra fredda

Molti altri temi rilevanti sono stati sollevati dal papa nel corso del viaggio in America Latina: la denuncia della chiesa “casta”, priva di misericordia, che sa solo condannare i fedeli e non immedesimarsi con la condizione umana; la descrizione di un impegno per mettere “l’economia al servizio dei popoli” partendo dal basso, dai movimenti popolari appunto, il cui primo compito deve essere quello di “difendere la madre Terra”; quindi il richiamo ai diritti umani, il dialogo con i non credenti, il riconoscimento delle donne quale soggetto sociale che ha saputo far sopravvivere paesi come il Paraguay devastati dalle violenze politiche interne; e ancora, il valore della memoria in realtà sconvolte da dittature, guerre civili, violazioni.

“Un popolo che dimentica il suo passato, la sua storia, le sue radici, non ha futuro, è un popolo secco”, ha affermato Bergoglio al suo arrivo in Paraguay. La memoria, poggiata saldamente sulla giustizia, libera da sentimenti di vendetta e di odio, trasforma il passato in fonte di ispirazione per costruire un futuro di convivenza e di armonia, rendendoci consapevoli della tragedia e dell’assurdità della guerra. Mai più guerra tra fratelli!”, ha detto ancora il papa. In Bolivia ha parlato della memoria dei popoli, una “memoria che si trasmette di generazione in generazione, una memoria in cammino”, dentro la quale si trova anche l’attesa per “una giustizia che non arriva”.

Questo parlare da figlio del continente da parte di papa Francesco, oltre a contenere un messaggio pastorale, è l’affermazione definitiva di una leadership che ora ha messo in mostra, schierato, il suo popolo. Un passaggio d’epoca è ormai compiuto: il papa latinoamericano è il capo di una chiesa uscita definitivamente dalla guerra fredda, dai vecchi conflitti ideologici, che si assume però l’onere di interpretare criticamente i grandi problemi contemporanei, a partire dalla propria biografia rivendicata come biografia collettiva dell’America Latina.

Qui, infine, emerge un tema che si può solo accennare: quanto il Concilio vaticano II, divulgato e conosciuto in Europa quale evento ecclesiale caratterizzato da un dibattito di alto livello tra teologi e uomini di chiesa principalmente europei, sia stato in realtà, e forse soprattutto, un evento sociale latinoamericano. In questa prospettiva, probabilmente, la storia della chiesa moderna ancora deve essere scritta.

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