Il 23 luglio il governo statunitense ha annunciato di aver raggiunto un accordo con la Turchia che permetterà alla sua aviazione di usare la base di Incirlik nella campagna contro il gruppo Stato islamico in Siria e in Iraq. L’autorizzazione a usare Incirlik, che è molto più vicina al teatro di guerra rispetto alle basi nel Golfo persico attualmente impiegate dalla coalizione contro lo Stato islamico ed era già stata un punto di appoggio fondamentale per l’invasione dell’Iraq nel 2003, era stata chiesta da Washington fin dall’inizio dei bombardamenti, ma Ankara aveva finora resistito alle pressioni. Il 24 luglio, invece, l’aviazione turca ha addirittura condotto direttamente alcune sortite contro lo Stato islamico poco oltre il confine siriano.

La riluttanza del governo di Recep Tayyip Erdoğan, del partito islamico moderato Akp, ad assumere un ruolo attivo nella lotta contro lo Stato islamico era valsa alla Turchia l’accusa di tollerare, se non di appoggiare apertamente, i jihadisti in Siria. Soprattutto durante l’assedio di Kobane, quando i militari turchi erano rimasti con le mani in mano oltre il confine mentre a pochi chilometri di distanza i difensori curdi della città lottavano per non soccombere. Negli ultimi mesi le rivelazioni che i servizi segreti turchi hanno inviato aiuti ad alcuni gruppi jihadisti in Siria hanno rafforzato questi sospetti.

Il motivo apparente per questo cambio di posizione è la strage di Suruç, dove il 20 luglio un terrorista dello Stato islamico si è fatto esplodere uccidendo 32 membri di un’organizzazione giovanile che stavano organizzando una campagna per aiutare la ricostruzione di Kobane. Il massacro ha scatenato un’ondata d’indignazione in Turchia e ha aumentato la pressione sul governo, accusato di aver sottovalutato la minaccia jihadista per servire i propri interessi.

Ma la svolta nella politica di Ankara in Siria era già in corso da settimane, con una vasta operazione antiterroristica che aveva portato allo smantellamento di diversi centri di reclutamento dello Stato islamico in Turchia. E i motivi vanno ben al di là della strage di Suruç.

Innanzitutto, alle elezioni del 7 giugno l’Akp ha perso la maggioranza assoluta in parlamento ed Erdoğan, che nel 2014 è diventato presidente della repubblica e ha ceduto la guida del governo all’ex ministro degli esteri Ahmet Davutoğlu, ha dovuto rinunciare ai suoi progetti di modificare la costituzione per trasformare la Turchia in una repubblica presidenziale. Le trattative per formare il nuovo governo sono a un punto morto. Inizialmente l’Akp puntava a tirarla per le lunghe e convocare un’altra elezione, sperando di ottenere un risultato migliore, ma gli ultimi eventi potrebbero aver fatto tramontare questa prospettiva. E tutti gli altri partiti turchi, dai kemalisti alla sinistra fino ai curdi, si oppongono al sostegno ai jihadisti in Siria.

L’accordo sul programma nucleare iraniano raggiunto il 14 luglio, poi, ha avuto un peso determinante. Oltre a porre le basi per un mutamento radicale delle alleanze nella regione, in cui la Turchia non vuole finire per ritrovarsi isolata, la fine della disputa con l’Iran avrà pesanti conseguenze sulla guerra in Siria.

Il governo statunitense ha detto chiaro e tondo che Teheran non potrà essere esclusa da un’eventuale soluzione politica, e questo significa che i giorni del presidente siriano Bashar al Assad, suo alleato, non sembrano più contati. Fin dall’inizio della guerra civile la Turchia si era posta come obiettivo irrinunciabile la caduta di Assad e la sua sostituzione con un governo “amico”.

Ma tutti gli sforzi di organizzare un’opposizione moderata sembrano falliti definitivamente e ormai gli Stati Uniti e molti paesi della regione si sono rassegnati all’idea che per il momento l’esercito siriano è l’unica garanzia che il paese non cada completamente in mano ai jihadisti, che a quel punto minaccerebbero direttamente il Libano e la Giordania.

La disgregazione della Siria avrebbe un altro effetto sgradito per Ankara: la formazione di uno stato curdo di fatto nel nordest. Recentemente i curdi siriani hanno respinto lo Stato islamico da alcune postazioni strategiche e controllano gran parte del confine con la Turchia. L’esercito turco sta rafforzando la sua presenza alla frontiera meridionale, ufficialmente per bloccare l’ingresso di altri attentatori e per prepararsi a un’eventuale operazione di terra contro lo Stato islamico, ma l’obiettivo è anche farsi trovare pronti per evitare che i curdi approfittino del precipitare della situazione per impadronirsi di altro territorio.

Il fatto che il 25 luglio l’aviazione turca abbia colpito anche le basi del Pkk in Iraq, rompendo la tregua che durava dal 2013, sembra suggerire che Ankara punti a spaccare la fragile unità delle fazioni curde. La Turchia ha visto con apprensione l’intensificarsi del rapporto tra Washington e i curdi, che negli ultimi tempi sono stati il vero contingente di terra della coalizione contro lo Stato islamico, e potrebbe voler subordinare il suo coinvolgimento in Siria a un ridimensionamento del ruolo dei peshmerga.

L’intervento della Turchia, invocato da mesi dagli analisti strategici, potrebbe davvero rivelarsi determinante nella lotta contro lo Stato islamico, soprattutto se l’accordo sul nucleare iraniano resusciterà le speranze di un compromesso tra le altre parti in lotta. Ma chi ha ordinato l’attentato di Suruç sapeva che questo era il risultato più probabile, e forse desiderato. Con le sue tensioni tra islamisti e secolaristi, e con la questione curda di nuovo in primo piano dopo l’ottimo risultato ottenuto dal partito filocurdo Hdp alle ultime elezioni, una destabilizzazione della Turchia avrebbe conseguenze imprevedibili, e trascinarla in guerra contro il “califfato” è il modo migliore per attizzare l’estremismo al suo interno. I prossimi mesi saranno un test durissimo per il paese e per l’intera regione.

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