In una vignetta pubblicata in questi giorni dal quotidiano svizzero Le Temps il bravo disegnatore Chappatte rappresenta il presidente François Hollande e il generale De Gaulle davanti a una finestra aperta su una folla inferocita. “C’è una sola cosa da fare in Francia: abolire il mese di maggio”, suggerisce il generale, il cui potere fu parecchio scosso dalle manifestazioni studentesche del maggio 1968.
Anche la protesta contro la riforma del lavoro dell’attuale governo, scoppiata a marzo di quest’anno, ha raggiunto l’apice negli ultimi giorni. Dal 23 maggio scioperano i lavoratori delle raffinerie: il blocco degli impianti ha spinto gli automobilisti a prendere d’assalto i benzinai, ha costretto il governo a mettere mano alle riserve strategiche di carburante e a forzare i picchetti che mantenevano chiuse due strutture sulle otto attive nel paese. Il 25 maggio si sono aggiunti i ferrovieri e il 26 il settore dell’energia nucleare, tanto che 16 delle 19 centrali francesi per un giorno rallentano la loro produzione di elettricità. Nello stesso giorno sono previsti cortei nella capitale e in altre città, uno sciopero dei lavoratori dei porti e dei dock di Le Havre e di Marsiglia e il blocco di alcune strade.
La Confederazione generale del lavoro (Cgt, vicina al Partito comunista), il principale sindacato che si oppone alla riforma, ha evocato anche la possibilità di turbare lo svolgimento dei campionati europei di calcio, che cominciano il 10 giugno.
Lo scontro si è inasprito dopo che il governo ha fatto adottare il disegno di legge all’Assemblea nazionale usando un articolo della costituzione che permette di saltare il voto dei deputati. La mozione di sfiducia presentata dall’opposizione per bloccare il progetto è stata respinta. Il testo, così approvato dalla camera, è ora all’esame del senato.
Eppure, spiega Sandrine Foulon, specializzata in questioni sociali ad Alternatives économiques, “non si può dire che il mese di maggio sia propizio alle proteste: quelle del 1995 contro la riforma del welfare ebbero luogo a dicembre”. Detto questo, aggiunge, “siamo molto lontani dallo sciopero generale che paralizzò il paese all’epoca. I due casi non sono paragonabili, anche perché quella del 1995 fu l’ultima grande riforma sociale globale lanciata da un governo in Francia”.
Le proteste che puntualmente accompagnano le proposte di riforma (o di modernizzazione, come amano a dire i loro fautori) non significano però che, come sostengono alcuni osservatori, la Francia sia irriformabile. Sandrine Foulon ricorda che “se si va a guardare l’indice Labref, che recensisce le riforme in materia sociale nell’Unione europea, la Francia ha riformato parecchio – si pensi solo alla riforma delle pensioni, della disoccupazione o dell’orario di lavoro. Il problema semmai è che adesso le riforme si fanno a piccoli passi: per esempio prendendo delle misure molto tecniche. Siccome nessuno ne capisce bene la portata, vengono approvate senza troppi intoppi, ma poi dispiegano i loro effetti molti anni dopo. Magari sono riforme modeste, ma hanno un vero impatto sulla vita della gente. Oggi la Francia non ha nulla da invidiare a certi paesi in materia di flessibilità del lavoro: ci sono 38 tipi di contratti di lavoro diversi!”.
Quello che spinge i francesi a scendere in piazza è il sentimento che le riforme successive hanno progressivamente smantellato i diritti acquisiti e conquistati nel tempo. Una tendenza che secondo Foulon “è cominciata alla fine degli anni ottanta, quando, per lottare contro la disoccupazione strutturale di massa, tutti i governi hanno cominciato ad applicare le raccomandazioni del Fondo monetario internazionale e dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economici (Ocse), che prevedevano grandi riforme strutturali del welfare. La Francia ha fatto la sua parte e non ha risparmiato nessun settore, dalla flessibilità alla durata dell’orario di lavoro, dalle pensioni alla disoccupazione. Dagli anni novanta abbiamo assistito quindi a un progressivo smantellamento delle conquiste sociali, da governi sia di destra sia di sinistra”.
Il disegno di legge El Khomri ha segnato la rottura tra gli elettori di sinistra e il governo socialista
Ma allora perché la riforma attuale, proposta dalla ministra del lavoro Myriam el Khomri, ha scatenato l’ira dei sindacati – o almeno di alcuni di essi – e spinto decine di migliaia di persone a manifestare? La specialista di Alternatives économiques risponde sicura: “Questa riforma è molto più incisiva e potenzialmente pericolosa, nella misura in cui abolisce alcune garanzie, introducendo nuove eccezioni al diritto del lavoro, in particolare in materia di orario di lavoro, di straordinario e di licenziamenti. Non è detto che le imprese le sfruttino, ma se lo facessero, potrebbero dar luogo a una forma di dumping sociale fra imprese dello stesso settore, a scapito dei lavoratori”.
E proprio la protezione dei lavoratori – di quelli con contratti regolari – è una delle ragioni per cui la disoccupazione è così stabilmente alta in Francia (il 10 per cento della popolazione attiva, malgrado un recente calo): “Si è preferito proteggere la qualità dei contratti di lavoro rispetto alla loro quantità, e i part-time sono molto meno numerosi che in altri paesi, come in Germania o nei Paesi Bassi – per non parlare del Regno Unito”, aggiunge Foulon.
Secondo la giornalista, il disegno di legge El Khomri ha segnato una rottura tra gli elettori di sinistra e il governo del socialista Manuel Valls: “È stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Prima c’è stata la questione della revoca della cittadinanza per i terroristi, poi questa legge fatta senza concertazione, una pessima abitudine dei governi francesi”.
Il movimento Notte in piedi, nato sull’onda delle prime proteste contro la riforma, “è frutto di questa assenza di dialogo fra le autorità e i cittadini, che hanno l’impressione di non essere ascoltati. Pensi che in Svezia hanno impiegato 14 anni per giungere a un’intesa sulla riforma delle pensioni! In Francia il governo agisce nell’emergenza e senza discutere con le parti sociali. La legge El Khomri non era nemmeno nel programma di Hollande”.
I sindacati da parte loro sono spaccati: alcuni si sono schierati a favore della legge in nome del realismo e altri, guidati dalla Cgt, chiedono il ritiro della legge. Lo scontro con il governo dovrebbe inasprirsi, poiché, sottolinea Le Monde, il premier Manuel Valls “è condannato a seguire l’attuale linea della fermezza per non prestare il fianco all’accusa di lassismo da parte dell’opposizione” o a quella di non essere in grado di riformare il paese che potrebbe arrivare da parte dei suoi – ormai sempre meno numerosi – sostenitori.
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