C’era una volta the biggest lie. Il ciclista dei record Lance Armstrong, quello capace di sopravvivere a un cancro ai testicoli e poi vincere sette Tour de France consecutivi dal 1999 al 2005, compare nel salotto di Oprah Winfrey e confessa: “È stata tutta una grossa bugia. Mi sono dopato per vincere i 7 Tour. Altrimenti, sarebbe stato impossibile”.

C’è oggi il figliol prodigo. Il più forte atleta italiano di questa generazione, il fenomeno della marcia mondiale Alex Schwazer che dice: “Datemi Rio, poi toglierò il disturbo”. Il 10 agosto, il tribunale di arbitrato sportivo (Tas), lo ha squalificato per otto anni.

La storia più bella dello sport degli ultimi cinquant’anni in realtà è una truffa. L’uomo che ha fatto riaccendere la passione dei tifosi delle due ruote e che ha fatto innamorare di uno sport poco conosciuto da quelle parti decine di milioni di americani, che ha costruito una piccola multinazionale con capitale sociale basato tutto sul proprio corpo vincente, in realtà è un baro.

Grido d’allarme

Durante l’intervista al Winfrey Show del 17 gennaio 2013, Armstrong sottolinea più volte il fatto che tutte le vittorie conseguite sarebbero state impossibili senza l’utilizzo di eritropoietina (Epo), testosterone e corticosteroidi, cioè ormoni naturalmente presenti nel corpo umano, ma che se iniettati in dosi massicce e regolari sono capaci di aumentare forza fisica e resistenza agli sforzi, sostanzialmente attraverso un aumento della circolazione sanguigna e quindi una maggiore ossigenazione dei tessuti, ma anche incrementando la viscosità del sangue e quindi il rischio di trombosi.

Impossibile vincere senza doping, una tesi ribadita anche in una lezione pubblica che Armstrong ha tenuto all’università del Colorado di fronte a un centinaio di studenti nel marzo scorso. In quell’occasione l’ex campione texano ha ricordato di quanto sia stato diffuso nel ciclismo l’uso di sostanze illecite, a cavallo tra ventesimo e ventunesimo secolo. Una tesi con un fondo di verità, sostenuta spesso da chi è stato squalificato per doping, di frequente letta come una excusatio non petita e troppo poco come un grido di allarme dello sport professionistico.

Si rischia la semplificazione sull’uso del doping: tutti colpevoli, nessun colpevole

A quei tempi infatti (che sembrano una vita fa e invece sono l’altro ieri), l’Epo non era rintracciabile nei test antidoping e tantissimi sportivi (non solo ciclisti) ne approfittavano. Ma è una tesi che, se portata avanti dal più famoso e potente dei dopati recenti, rischia di apparire come una semplice giustificazione: tutti colpevoli nessun colpevole.

Il texano ha anche espresso un duro giudizio sul ruolo dell’agenzia antidoping statunitense (Usada). “Hanno un budget di 15 milioni di dollari e i test rivelano solo lo 0,7 per cento dei positivi”, ha dichiarato Armstrong. Ed è condivisibile il suo pensiero quando sostiene che realisticamente le cifre dovrebbero essere più alte. “Almeno il 15-20 per cento, questo vuol dire che il sistema non funziona”. Critiche fondate e fatte a ragion veduta dal momento che arrivano da chi per un decennio ha dominato il ciclismo professionistico facendo largo uso di sostanze illegali, pagando di tasca propria la complicità delle istituzioni ciclistiche mondiali. Il tutto perché la sua era una bellissima storia.

Vuoto di potere

Lance Armstrong sottolinea una questione spinosa, e ancora oggi apertissima, e cioè il vuoto di potere in mezzo a tanti organismi che da un lato spadroneggiano e dall’altro si rimpallano le decisioni. Parliamo di Comitato olimpico internazionale (Cio), del Tas e delle varie federazioni sportive internazionali. Una triangolazione che non porta alla parola finale sul destino di atleti trovati positivi dall’agenzia internazionale antidoping, la Wada.

Si tratta dell’agenzia che è alla base di tutti gli ultimi scandali sull’utilizzo di sostanze proibite, in particolare quello che ha coinvolto l’atletica russa, spargendosi poi come una macchia oleosa di vergogna sull’ex presidente della Federazione internazionale dell’atletica leggera (Iaaf) Lamine Diack, finito in prigione con l’accusa, condivisa con il figlio Papa Massata, di intascare tangenti per chiudere gli occhi di fronte a un sistema che drogava massicciamente i suoi atleti per poter dominare gli ultimi appuntamenti tatticamente organizzati sul suolo russo.

Quello che era il direttore dell’antidoping della Iaaf, Gabriel Dollé, ha intascato una tangente da 70mila dollari per il caso della maratoneta russa Lilija Šobuchova, per la quale “mi era stato suggerito di differire il trattamento del caso in modo da non indisporre sponsor importanti della Iaaf”. Parole dello stesso Dollé di fronte ai giudici francesi nel novembre 2015.

Atleti sicuramente dopati e altri solo sospettati finiscono nello stesso calderone

Lo scandalo che ne è seguito, partito dalla pista, ha finito per coinvolgere il nuoto e diversi sport invernali. Senza dimenticare tutta la questione intorno al Meldonium usato per “curare” la tennista Maria Sharapova (tutt’ora sotto squalifica) e diversi altri sportivi. A questo riguardo giova ricordare come la Russia abbia organizzato negli ultimi anni i Mondiali di atletica leggera del 2013 a Mosca, le Olimpiadi invernali di Soči 2014 e i Mondiali di nuoto a Kazan nel 2015.

Appuntamenti in cui i suoi atleti hanno raggiunto risultati straordinari, vincendo addirittura il medagliere a cinque cerchi con 33 podi conquistati (13 ori). Strana coincidenza soprattutto se confrontata con i Giochi di Vancouver di soli quattro anni prima, quando gli ex sovietici si piazzarono all’undicesimo posto con appena tre titoli vinti e 15 podi in totale.

Alle Olimpiadi di Rio la Russia si trova con tutta la squadra di atletica esclusa e con altre situazioni che vengono risolte mentre le gare sono in corso. E qui torniamo allo scontro tra poteri che non decidono: da una parte c’è il Cio, con il suo presidente Thomas Bach, che ha demandato le decisioni alle singole federazioni internazionali, entrando in collisione con l’agenzia antidoping che avrebbe voluto una parola ferma e definitiva da parte del Comitato olimpico.

In questo modo ogni atleta sospettato di doping deve attendere tre gradi di giudizio da parte di un pool di esperti convocati a Rio, in una sorta di sezione distaccata del Tribunale internazionale che solitamente ha sede a Losanna.

Il primo doping di stato

Tutto questo porta a sentenze che possono essere in contraddizione tra loro da un grado all’altro e spesso anche, appunto, a una non decisione. Il risultato è il caos in cui atleti sicuramente dopati e altri inseriti in un database di sospettati (il cosiddetto rapporto McLaren, dal professore canadese che ha curato lo studio per la Wada) finiscono nello stesso calderone ed esclusi dai Giochi, oppure riammessi, senza una regola precisa. Ne è un esempio il caso della nuotatrice Julija Efimova, prima esclusa e poi ammessa ai Giochi (conquistando l’argento nel 100 metri rana) perché la sua squalifica è stata scontata a febbraio del 2015.

Il rapporto finale redatto da Richard McLaren è il primo documento ufficiale di un organo internazionale in cui si parla di “doping di stato” per quanto riguarda la Russia. Infatti l’accusa arriva direttamente al ministro dello sport Vitaly Mutko, che avrebbe “controllato, diretto e supervisionato con l’ausilio dei servizi segreti” un sistema di manomissione delle provette di urina degli atleti di diversi sport prima che queste arrivassero nei laboratori di analisi delle federazioni internazionali, andato avanti dal 2011 fino all’agosto del 2015.

Nel dossier McLaren l’atletica è in testa alla classifica per numero di coinvolti con 139 casi, seguita dal sollevamento pesi (117). Ci sono anche 35 casi relativi agli sport paralimpici (il Comitato paralimpico ha deciso di escludere tutti gli atleti russi da Rio), quindi lotta (28), canoa (27), ciclismo (26), pattinaggio (24), nuoto (18), hockey su ghiaccio (14), sci (13), biathlon (10), bob, judo e volley (8), boxe e pallamano (7), taekwondo (6), scherma e triathlon (4), pentathlon moderno e tiro (3), beach volley e curling (2), basket, vela, snowboard, tennis tavolo e water polo (1). Si è scoperto poi che sono inseriti nel dossier anche i nomi di undici calciatori. Questo fatto apre un altro scenario inquietante dal momento che la Russia ospiterà i Mondiali nel 2018.

Alex Schwazer sul podio della 50 chilometri Iaaf, a Roma, il 7 maggio 2016. (Tullio M. Puglia, Getty Images per Iaaf)

Tornando ai Giochi di Rio, la delegazione russa ha visto il suo contingente tagliato, per ora, di circa il 30 per cento. Questo ha aperto le porte delle gare ad atleti di altre nazioni che non avevano di fatto ottenuto il pass in virtù delle loro prestazioni. Confermando la sensazione di precarietà e pure di scarsa chiarezza delle regole.

Dalla sezione distaccata del Tas a Rio è passato anche il nostro Alex Schwazer, campione olimpico nella 50 chilometri di marcia a Pechino 2008, e squalificato per tre anni anni e nove mesi alla vigilia di Londra 2012 a causa di una positività all’Epo. Schwazer è stato escluso dalle Olimpiadi in virtù di un controllo avvenuto il 1 gennaio scorso e che ha rivelato una presenza molto lieve di steroidi anabolizzanti nelle sue urine (si tratta di testosterone ed epitestosterone).

“Il più forte marciatore al mondo avrebbe fatto uso di un doping da scemo, inutile e a livelli bassissimi”, ha commentato a caldo il 22 giugno Sandro Donati, decano della lotta al doping e allenatore di Alex da quando è tornato a marciare. A quanto pare la risposta è sì, stando alla decisione arrivata il 10 agosto, con un giorno di anticipo. Il Tas accoglie le richieste della Iaaf e squalifica Schwazer per altri otto anni. Il marciatore può ancora presentare un ricorso alla Corte federale svizzera, ma comunque il sogno olimpico muore qui.

Conflitto d’interessi palese

In virtù delle dichiarazioni del marciatore di Racines, la procura di Bolzano è risalita a una lista di nomi di atleti con valori del sangue “sospetti”, in possesso del medico italiano Giuseppe Fischetto. Il Sunday Times e il canale tedesco ARD hanno parlato di cinquemila atleti, l’80 per cento dei quali russi.

Fischetto è stato primario del pronto soccorso di Frascati (andato in pensione nel 2012), dal 1990 è responsabile medico Fidal e dal 2003 è membro della commissione antidoping della Federazione internazionale di atletica per conto della quale programma e fa eseguire i controlli. Un conflitto di interessi abbastanza palese dal momento che in lui coincidono il controllore e il controllato, in quanto rappresenta l’Italia, una delle 200 nazioni affiliate alla Iaaf.

Mentre la procura di Bolzano continuava (e continua) a processare Fischetto in sede penale per favoreggiamento del doping, il dottore ha svolto il ruolo di responsabile antidoping ai Mondiali di atletica 2015 e anche alla gara di coppa del mondo a Roma l’8 maggio scorso, quella in cui Alex Schwazer è tornato a marciare dopo aver scontato la squalifica. Dice Fischetto di Schwazer, in una telefonata intercettata con Rita Bottiglieri, sotto processo pure lei, il 18 giugno 2013 (che Repubblica ha fatto sentire nel documentario di Attilio Bolzoni qualche giorno fa): “Questo crucco comunque addamorì ammazzato, devono inc*larsi la Kostner”.

Ma è più rilevante quanto afferma Fischetto alcuni minuti prima al telefono con un amico: “Io spero non ci siano fughe di notizie perché succede un casino internazionale: sai metti che vengono fuori dei dati dei russi più che non dei turchi più che non degli altri, perché io sono nella commissione mondiale, tu lo sai, della Iaaf”. Proprio la Iaaf di cui parla Fischetto, e della quale è collaboratore pur essendo sotto processo, ha deciso di inviare il controllo di capodanno.

Un controllo controverso sotto tanti punti di vista, innanzitutto perché non rispetta la regola dell’anonimato visto che nel documento che accompagna le provette (se ne prendono sempre due per analisi e controanalisi) si legge la provenienza: Racines. Vale la pena ricordare che nel paese dell’Alto Adige vivono circa quattromila persone e un solo atleta professionista: Schwazer. Poi i tempi: perché il prelievo è stato fatto il 1 gennaio e la positività l’ha rivelata La Gazzetta dello Sport il 22 giugno, oltre sei mesi dopo e a una quarantina di giorni dall’inizio dei Giochi. Nel frattempo Schwazer si è sottoposto in tutto ad altri venti controlli delle urine e del sangue risultando sempre negativo, anche nell’ultimo fatto a giugno.

Togliere il disturbo

Dalla rinascita, alla creazione di un cyber cowboy dalla storia lacrimevole, fino alla consacrazione nella geopolitica internazionale, oppure per semplici giochi di potere e ricchezza personali (è notizia recente l’arresto del team manager dell’atletica keniana per una mazzetta da diecimila dollari per elusione dei controlli), il doping in questi anni è diventato un mezzo per volare ben al di sopra dell’ambito sportivo.

Un mondo opaco in cui sono coinvolti allenatori, medici, dirigenti, fino ai detentori del potere politico tout court, ma nel quale incredibilmente a rischiare tutto rimangono solo gli atleti e i loro corpi. E Schwazer ne rimarrà invischiato per sempre, mentre i Giochi sono in corso e mancano pochi giorni alla gara che voleva più di tutte, la 50 km di marcia che si terrà il 19 agosto. Lui non ci sarà, ormai è chiaro. Il Tas ha anticipato di un giorno la sentenza per dire al mondo che Alex Schwazer è un dopato recidivo, perché questo significa essere squalificati per otto anni. E significa anche la fine di una carriera. Perché al di là della prosecuzione dell’iter giuridico in cerca di giustizia, un dato è chiaro: non ci sarà mai più il marciatore Alex Schwazer.

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