Nick Cave sembra uscito dalla penna di Edgar Allan Poe. Non è difficile immaginarselo mentre si aggira per le strade di Londra, New York o São Paulo, per cercare storie da infilare nelle sue canzoni. Come un moderno ed elegante [uomo della folla][1], nemmeno l’avanzare dell’età sembra dargli pace. Però quella pace non smette di cercarla.
Push the sky away, come già era stato [The boatman’s call][2], è il tentativo di Cave di far quadrare i conti, affidandosi a una forma di religiosità personale. Non c’è un’esplicita iconografia sacra, come era successo in [The good son][3], ma un diffuso desiderio di spiritualità, di pace mai trovata. Per questo è un album dall’andamento lento, che scorre in un unico respiro, come una lunga preghiera.
È un disco di canzoni, certo. Di ottime canzoni. Ma è soprattutto il racconto pacato e terribile di un’eterna apocalisse. La stessa che agita da vent’anni i sogni del cantautore australiano.
Perso per strada il polistrumentista Mick Harvey, Nick Cave ha dovuto fare qualche correzione al suono dei suoi Bad Seeds. Per questo lo stile del disco è così diverso dal garage di Dig!!! Lazarus dig!!! e dalle tensioni noise dei Grinderman, il suo ultimo progetto parallelo. Le chitarre sono un po’ nascoste, e i pezzi sono spesso avvolti da loop elettronici ossessivi. E non è un caso se il suo autore ha definito questo lavoro “un bambino fantasma nell’incubatrice”.
Push the sky away è un viaggio che comincia alle prime luci dell’alba, con il sermone di We no who U R, dove alla voce di Cave si aggiunge un etereo coro femminile. I primi presagi non sono proprio allegri: “Sappiamo chi siete, dove vivete. E non c’è alcun bisogno di perdonare”. Ad attenuare i toni, dopo quest’inizio così spettrale, c’è la distesa Wide lovely eyes, a suo modo una canzone d’amore.
Nemmeno il tempo di rilassarsi, che la nenia arabeggiante di Water’s edge riporta il disco su toni molto meno rassicuranti. Jubilee street è invece un numero in pieno stile Nick Cave. Ispirata, a modo suo, a una strada di Brighton, la città inglese dove il cantautore vive insieme alla moglie, la canzone racconta una torbida storia che intreccia sacro e profano. Fino alla catarsi finale, la metamorfosi che investe il protagonista in un crescendo ben reso dagli archi e dall’interpretazione di Cave.
In queste atmosfere arcaiche, quasi da antico testamento, affiorano ogni tanto delle schegge di modernità. “Wikipedia è il paradiso quando non ti ricordi niente”, recita We real cool, un pezzo costruito su un riff di basso ossessivo. Finishing Jubilee Street invece assomiglia più a uno schizzo su un taccuino che ad una canzone. Eppure colpisce fin dal primo ascolto.
Così, lentamente, si arriva al capolavoro del disco. Higgs Boson blues è una ballata rock di una classe cristallina. È la On the beach di Nick Cave. E dove Neil Young metteva gabbiani e solitudine, il cantautore australiano mette il diavolo, Robert Johnson e Miley Cyrus che fa il bagno in una piscina. E soprattutto, mette a piene mani la sua perenne apocalisse. Lenta e inesorabile.
Quando si arriva in fondo al tunnel, la luce che illumina l’uscita è quella di un’altra alba. Ma anche questa, racchiusa nella titletrack, non è per niente rassicurante. Tutto è fermo e rarefatto. Eppure sembra sempre sul punto di esplodere.
Push the sky away è un grande album. Un sogno allucinato che dimostra, se possibile, la maturità e la profondità di uno dei più grandi cantautori in circolazione. È già uno dei dischi dell’anno. Anche se siamo solo a febbraio.
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