Quando si avvicina la fine dell’anno veniamo sommersi dalle classifiche. Ma da appassionato di musica non ho potuto resistere, e ho deciso di fare anch’io la lista dei miei dieci dischi preferiti del 2013. Si accettano suggerimenti e critiche nei commenti, magari proprio per il fatto che ho escluso dalla classifica [questo album][1] e [anche questo][2].
1. Nick Cave: Push the sky away
Push the sky away è un lungo sogno allucinato, un viaggio lento e inesorabile nell’apocalisse. Con l’abbandono di Mick Harvey, Nick Cave ha corretto in corsa il suono dei Bad Seeds: le chitarre sono più nascoste, e i pezzi sono spesso avvolti da loop elettronici ossessivi. Uno dei migliori album del cantautore australiano negli ultimi anni, con pezzi memorabili come Jubilee street e Higgs Boson Blues.
2. Daft Punk: Random access memories
Di questo album si è parlato tanto, anzi troppo. Perché i Daft Punk mancavano dalle scene da un po’, e perché la strategia di marketing che ha accompagnato la pubblicazione è stata studiata nei minimi dettagli. Ma Random access memories è un disco così brillante da giustificare tutta questa attesa. È un viaggio retromaniaco nella storia della musica disco e pop, pieno di ritornelli killer ma anche di arrangiamenti raffinati. Solo questi due signori francesi riescono a mettere in piedi un’operazione del genere e a mettere d’accordo (quasi) tutti.
3. Jonathan Wilson: Fanfare
Alla fine degli anni sessanta, proprio mentre San Francisco stava vivendo la sua Summer of love, in un quartiere di Los Angeles chiamato Laurel Canyon suonavano band come The Byrds, The Mamas & the Papas, Frank Zappa e Eagles. Oggi, a distanza di decenni, il produttore Jonathan Wilson ci riporta a quegli anni. Fanfare è un disco bellissimo, che fa incontrare la psichedelia americana con il rock dei Pink Floyd, il gusto barocco e l’autenticità del folk.
4. The Knife: Shaking the habitual
Politica, ambientalismo, scenari apocalittici e sperimentazione. La musica degli svedesi The Knife non è mai banale, come non è mai banale la voce di Karin Dreijer Andersson. Shaking the habitual è un disco ostico, va affrontato di petto. Ma dà grandi soddisfazioni, sia negli episodi strumentali (Fracking fluid injecton, Raging lung) che in quelli cantati (quel mezzo capolavoro di Full of fire).
5. John Grant: Pale green ghosts
John Grant è semplicemente uno dei cantautori più bravi in circolazione. Ha una voce bellissima, e scrive canzoni che dietro la loro apparente dolcezza nascondono ombre inquietanti. Pale green ghosts è diverso dal precedente Queen of Denmark, registrato insieme al gruppo folk Midlake. Qui Grant pesca a piene mani dall’elettronica e dal pop degli anni ottanta. Il risultato è comunque di alto livello.
6. Bill Callahan: Dream river
Che si faccia chiamare Smog o usi il suo nome, con quella voce lo si riconosce subito. Bill Callahan è il classico artista che non ha la fama che si merita, perché non sbaglia quasi mai un disco. E sa raccontare storie semplici, che hanno il fascino perduto della grande frontiera americana. In Dream river è riuscito perfino a uscire un po’ dal seminato, inserendo nella sua musica ritmiche più sudamericane e jazzate.
7. Chvrches: The bones of what you believe
Un esordio da ricordare nel 2013 è quello dei Chvrches, band synthpop scozzese con un gusto invidiabile per la melodia. Canzoni semplici, ma orecchiabili e studiate nei minimi dettagli. Ognuna potrebbe essere un singolo, il che di solito è un ottimo segno. Pop di qualità, che ogni tanto ci vuole.
8. King Krule: 6 feet beneath the moon
Il britannico King Krule è molto giovane, ma ha la faccia di uno che ne ha già passate parecchie. O comunque è molto bravo a farcelo credere. La sua musica si nutre di molte influenze: dal punk dei Clash all’elettronica inglese, dal rock indie allo spoken word di Gil Scott-Heron. È roba che piace agli hipster, ma che ha un’anima. Eccome se ce l’ha. Teniamolo d’occhio.
9. Savages: Silence yourself
Quattro donne dall’aria combattiva, con una cantante (Jehnny Beth) che si ispira un po’ a Ian Curtis un po’ a Siouxsie Sioux. Altro debutto da ricordare, di una band che (dicono) dal vivo è ancora più furiosa e coinvolgente che in studio. Ho già il biglietto per il loro concerto romano a febbraio.
10. The Field: Cupid’s head
C’è qualcosa di spirituale nei loop sintetici prodotti dallo svedese Axel Willner, l’uomo che si nasconde dietro il nome The Field. Perché la sua elettronica, in bilico tra ambient e techno, è qualcosa di più che una semplice musica da ballare. Dopo il bellissimo Looping state of mind, un nuovo saggio della bravura di Willner.
Giovanni Ansaldo lavora a Internazionale. Si occupa di tecnologia, musica, social media. Su Twitter: @giovakarma
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