Colapesce, siciliano di Solarino, è un cantautore atipico. Come tanti musicisti, prima di scegliere la strada solista ha fatto parte di un gruppo. Ma la cosa sorprendente è che la sua musica suona ancora come quella di una band: coraggiosa, sperimentale, mai ripetitiva. E forse è proprio questo a renderlo uno dei cantautori più interessanti della scena italiana. Merito di una ricerca sonora scrupolosa, che si notava già nell’album Un meraviglioso declino, vincitore della targa Tenco 2012 come migliore opera prima.
Con Egomostro, il suo nuovo disco, ha cambiato un po’ strada: il suo orizzonte, in passato rivolto soprattutto verso gli Stati Uniti e gli anni settanta, l’ha portato verso il Mediterraneo e gli anni ottanta. Abbiamo incontrato Lorenzo Urciullo, questo il suo vero nome, in occasione della data romana del suo tour italiano.
Perché hai intitolato il tuo nuovo album Egomostro?
Egomostro è un neologismo. È una parola senza storia, alla quale è bello costruire attorno un immaginario. Nel gergo comune, un ecomostro è una costruzione brutta in un contesto bello. L’egomostro è una costruzione brutta dentro il nostro io, il simbolo delle difficoltà della nostra generazione. L’ego a cui mi riferisco, ci tengo a precisarlo, è soprattutto il mio. È un disco autobiografico, quasi intimo.
Dal punto di vista sonoro è un disco diverso dal precedente, Un meraviglioso declino. Ci sono meno chitarre e un po’ più di elettronica. Sei d’accordo?
In realtà ci sono molte chitarre anche in Egomostro, ma sono meno in evidenza. Un meraviglioso declino era più classico, alla Neil Young: basso, chitarra e batteria. In questo album ho usato tanta elettronica, i fiati, sia veri sia finti e i violini. Ho usato anche il Marxophone, uno strumento d’epoca, una specie di autoharp che si suona con dei martelletti. E poi c’è il tamburo di Alfio Antico, un percussionista siciliano considerato tra i migliori al mondo. Tra l’altro ho avuto l’onore di produrre il suo ultimo disco.
Lo definiresti un concept album?
Sì. Non a caso Entra pure e Vai pure, i due brani che aprono e chiudono il disco, sono in realtà lo stesso pezzo diviso in due. Volevo dare un’idea di circolarità. La prima chiude con un accordo minore, più triste, e l’altra con un accordo maggiore, per dare speranza. L’ultimo verso, “con un leggero malessere riconquistiamo la bellezza”, è ispirato alla pièce teatrale di Harold Pinter A slight ache.
Sei partito con l’idea di registrarlo così?
Più o meno. Avevo dei riferimenti chiari: volevo un suono a cavallo tra gli anni settanta e gli anni ottanta. Per la batteria mi sono rifatto a Remain in light dei Talking Heads. Ho ascoltato molto il Lucio Battisti di fine anni settanta e primi ottanta, soprattutto Una giornata uggiosa e Don Giovanni. Mi sono ispirato anche ai Matia Bazar di Vacanze romane, che sono stati dei pionieri. E poi gli amori di sempre: Wilco, Fleet Foxes, Franco Battiato. È stato un lavoro lungo, in tre fasi. Prima ho registrato trenta demo a casa, in due anni. Poi ho fatto ascoltare i provini a Mario Conte, che ha fatto la produzione artistica del disco con me. Abbiamo registrato delle cose in sala prove e poi siamo entrati in studio. È una cosa che quasi non si fa più, una follia.
Nonostante questo suona come un disco di una band pop, che non è affatto una cosa negativa.
Certo. Pop non è solo sinonimo di brutta musica. Anche Sufjan Stevens è pop, anche i Beatles lo erano.
Nel brano che dà il titolo al disco canti: “Sono stanco di sentire la parola cambiamento, le mie due certezze se le sfiori vado in crisi”.
Come dicevo, è un disco autobiografico e metto in luce anche gli aspetti di me che non mi piacciono. In Italia c’è una retorica eccessiva del cambiamento, ma in realtà l’italiano medio è lontano anni luce dalla voglia di voltare pagina. Se togli la parmigiana a un catanese dopo due settimane schiatta. E io non sono da meno.
Com’è nata la canzone Maledetti italiani?
Un po’ come tutto il disco, è un pezzo ironico, una critica rivolta prima di tutto a me stesso, alle mie pigrizie e alle mie contraddizioni. Non è un manifesto politico. Non mi piace schierarmi troppo nelle canzoni. Un cantautore non deve giudicare gli altri, ma solo dare il suo punto di vista.
Il video di Maledetti italiani è più feroce della canzone, che invece è ironica. Perché?
In realtà non è così, perché non c’è una selezione mirata dei personaggi che vengono fatti a pezzi. Da Barbara D’Urso a Italo Calvino, da Dolce & Gabbana a Battisti. E ci sono anche io, ovviamente.
Nel brano canti: “La mafia è diventata pop, la musica fa vittime”. In che senso?
È difficile da spiegare. A te cosa è venuto in mente?
Non saprei. C’è per caso un riferimento a Gomorra e a Romanzo criminale?
In un certo senso sì. Trovo che ormai il modo di raccontare i fenomeni criminali sia diventato troppo pop. E questo mi fa girare un po’ le balle. Forse è solo una mia impressione. Sul fatto che la musica faccia vittime invece non ho dubbi. La discografia è alla frutta e il sistema dei talent show tipo X Factor non serve a risolvere il problema, anzi lo aggrava. La produzione degli album italiani ha standard bassi rispetto all’estero. La mia critica non è solo verso la musica mainstream, quella indipendente non è da meno. L’unico ambito che si salva è la musica elettronica, che è viva e funziona anche all’estero. Populous mi piace molto. I Bloody Beetroots si sono imposti all’estero, così come gli M+A.
Nel brano Brezsny la tua ironia non risparmia neanche Internazionale.
Figurati (ride). Non è sarcasmo verso l’oroscopo di Rob Brezsny o il giornale, sono un vostro lettore. Anche in questo caso, ce l’avevo con me stesso. Era un modo di dire: “Non ho più scampo, non mi resta che affidarmi all’oroscopo di Brezsny”.
Un’ultima curiosità. Sei un fan degli Smashing Pumpkins? Nel 2010 hai fatto la cover di tutto Mellon collie and the infinite sadness con gli Albanopower, la tua vecchia band.
Sono un fan di quell’album. Abbiamo riregistrato entrambi i dischi e ho coinvolto 57 persone tra amici e altri musicisti. Si può scaricare gratis su internet. Il progetto è stato segnalato anche da Billy Corgan, che tra l’altro si vanta di avere degli avi siciliani. È un disco bellissimo, rispetto a tanti altri di quel periodo è invecchiato bene. Non mi ricordo un doppio così bello negli ultimi anni.
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