Sembra passata un’era geologica dai tempi in cui Oasis e Blur erano i padroni delle copertine delle riviste britanniche. Erano altri tempi: due band indie rock finivano nei titoli del telegiornale e vendevano milioni di dischi. E allora i dischi, anzi i cd, si vendevano davvero.

Negli anni novanta una recensione del New Musical Express o di Melody Maker poteva fare davvero la fortuna di un gruppo. Ed è forse proprio per questo che è nato un fenomeno come il Britpop, un genere, se non inventato, quantomeno alimentato ad arte dalla stampa britannica. Un calderone dentro al quale sono finite band
molto diverse tra loro (Blur, Suede, Oasis, Ocean Colour Scene, Elastica, Supergrass) e un modo per rispondere all’esplosione del grunge oltreoceano.

Blur vs Oasis. Secondo il giornalista e critico britannico John Harris, il Britpop è nato nella primavera del 1992, quando sono usciti i singoli Popscene dei Blur e The drowners degli Suede. Da lì in poi è stato tutto uno strano crescendo.

Le riviste musicali si sono buttate a capofitto nel nuovo fenomeno. Se negli anni sessanta c’era stato il dualismo tra Beatles e Rolling Stones, adesso toccava a due nuove band contendersi la corona del rock britannico. Da una parte gli Oasis, i figli della working class di Manchester guidati dai rissosi fratelli Gallagher, musicalmente rozzi ma con in mano delle ottime canzoni. Dall’altra parte i Blur, quartetto londinese guidato dal cantante Damon Albarn e dal chitarrista Graham Coxon: più colti, sofisticati e autoironici.

Il 14 agosto 1995 Blur e Oasis, in una sfida all’ultima copia, hanno annunciato che i loro due nuovi singoli sarebbero stati pubblicati lo stesso giorno. Alla fine della settimana, Country house di Damon Albarn e soci ha vinto il duello con Roll with it, vendendo 274mila copie contro le 216mila del singolo dei Gallagher.

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In un crescendo di insulti reciproci, Noel Gallagher ha augurato a Damon Albarn e Alex James di morire di aids. A tratti la guerra tra band è stata anche divertente, come durante la cerimonia dei Brit awards nel 1996, quando i fratelli Gallagher hanno ringraziato i fan con la loro personale versione di Parklife dei Blur. Sono passati più di vent’anni e, visti con gli occhi di oggi, quei tempi suscitano un misto di imbarazzo e tenerezza.

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Ma quei tempi, sembra paradossale, sono tornati d’attualità. Perché oggi in Italia è uscito The magic whip, il nuovo disco dei Blur. Il primo da Think tank, pubblicato nel 2003. Ha senso, nel 2015, ascoltarlo e recensirlo? Sì, perché i Blur erano, e sono, un grande gruppo, una band che è riuscita ad andare al di là del Britpop e a resistere alla prova del tempo.

Sconfitti e contenti. Per spiegare la grandezza dei Blur bisogna tornare di nuovo agli anni novanta. A partire dal 1995, nonostante la vittoria di Country house su Roll with it, la guerra commerciale del Britpop alla fine l’hanno vinta gli Oasis, grazie al successo di (What’s the story) morning glory? Ma questa è stata la vera fortuna dei Blur.

Sconfitti nelle classifiche, i Blur hanno concesso ai fratelli Gallagher il ruolo di band nazionalpopolare. Gli hanno lasciato riempire Knebworth con 300mila persone e hanno tirato dritto verso la strada della sperimentazione sonora. Quando gli Oasis hanno dato alle stampe lo sfarzoso Be here now, cercando ancora una volta di diventare i Beatles di fine millennio, Damon Albarn hanno pubblicato Blur, un disco che andava già oltre il Britpop, aprendosi all’indie statunitense di Pavement e Sonic Youth.

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Mentre gli Oasis registravano Standing on the shoulder of giants, i Blur erano già da tutt’altra parte con 13. Damon Albarn, piano piano, è diventato sempre più curioso verso quello che succedeva fuori del Regno Unito. Ha esplorato la musica elettronica, l’hip hop e ha scoperto l’Africa.

Poi, nel pieno della maturità artistica, i Blur sono implosi. Think tank, uscito nel 2003, è stato registrato quasi completamente senza il fuggiasco Graham Coxon, e non caso assomigliava molto a un album solista di Albarn. Finito il tour di Think tank, anche il resto della band ha preso strade separate. Negli anni successivi, Damon Albarn si è buttato sui suoi progetti solisti, espandendo ancora di più i suoi orizzonti e registrando sempre ottima musica (Gorillaz, The Good The Bad and The Queen, il progetto Africa Express, i musical).

Nel 2009, un po’ a sorpresa, il gruppo si è rimesso in moto, con il concerto della reunion a Hyde Park. I concerti sono proseguiti e nel 2012 sono usciti anche due inediti.

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Il nuovo disco The magic whip è nato nel maggio 2013, mentre il gruppo si trovava in Asia per suonare al Tokyo Rocks Music. Il festival è stato cancellato per motivi non chiari e la band si è trovata intrappolata per cinque giorni a Hong Kong. Per distrarsi, i Blur hanno deciso di registrare della nuova musica agli Avon Studios. Le session sono andate molto bene e ne sono venuti fuori circa quindici brani. Ma Damon Albarn all’inizio non era convinto e le canzoni sono rimaste in un cassetto per molto tempo.

Il chitarrista Graham Coxon, quello che più di tutti ha voluto la realizzazione di questo album, non si è arreso e, un anno dopo, ha convinto Damon Albarn a dargli il permesso di lavorare sui brani con lo storico produttore della band, Stephen Street. In seguito Albarn è tornato qualche giorno a Hong Kong per trovare l’ispirazione e nel gennaio 2015 ha scritto i testi e registrato le parti vocali.

Com’è The magic whip. È un album composto di getto e assemblato a posteriori in modo un po’ casuale. Ed è proprio questo il suo bello. È la storia di quando quattro amici un po’ arrugginiti tornano a suonare insieme e, tutto sommato, hanno ancora qualcosa da dire.

La cosa che stupisce dei nuovi Blur è che sono ripartiti esattamente da dove avevano lasciato, con quel pizzico di cazzeggio che i loro dischi hanno sempre avuto. Il brano d’apertura, Lonesome street, è ispirato al caos metropolitano di Hong Kong, ma è pieno di riferimenti a Modern life is rubbish e Parklife. C’è il riff di Coxon, c’è la sezione ritmica dritta e c’è la voce sboccata di Damon Albarn, che invita a prendere “l’autobus 514 per East Grinstead”.

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The magic whip,il cui titolo rimanda contemporaneamente a un gelato, un fuoco d’artificio e a un non meglio specificato sottotesto politico, non è rimasto immune al passare del tempo. La veste cantautoriale di Damon Albarn, maturata nel recente e bellissimo Everyday robots, viene fuori. Per esempio in New world towers, che sembra uscita da un film di fantascienza. Ma quando stai per dire: “È come un disco di Damon Albarn solista”, all’improvviso arriva la chitarra di Graham Coxon e ti ricordi perché ti mancavano i Blur. Go out, scelta come singolo apripista, è un pezzo sporco, rumoroso. È guidata dal basso di Alex James, ma è la chitarra di Coxon con i suoi feedback a portarla da un’altra parte. Ice cream man è una canzone strana, difficile da inquadrare perché dietro la sua melodia scanzonata nasconde una discreta cupezza.

The magic whip è un album discontinuo, dal punto di vista stilistico. Anche da quello della qualità. I broadcast e Ong ong, per esempio, sono un po’ dei riempitivi. Il disco dà il suo meglio quando rallenta il ritmo. Thought I was a spaceman è straniante, ma cresce sul finale. My terracotta heart, che sembra parlare della tormentata amicizia tra Albarn e Coxon, funziona alla perfezione.

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There are too many of us è forse il pezzo migliore del disco. Guidata da un ritmo militaresco e da una bella sezione d’archi, esalta la voce di Albarn. Il testo, cupo e pessimistico, è anche stavolta ispirato a Hong Kong. Ma lo stesso Albarn ha ammesso di aver finito di scrivere le parole dopo essere stato testimone diretto (dalla finestra del suo albergo) della crisi degli ostaggi del dicembre 2014 in Australia.

Pyongyang, un altro dei brani più interessanti del lotto, è una ballata apocalittica, con suoni alla Talking Heads e un testo molto riuscito, dove l’utopia neostalinista della città nordcoreana viene descritta con toni malinconici e toccanti. La chiusura del disco è affidata alla desertica Mirrorball, un brano sospeso tra richiami western ed echi orientaleggianti.

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Insomma, nonostante tutto i Blur sono ancora vivi. E hanno ritrovato un pizzico della magia che li aveva fatti salire sul podio della musica britannica. The magic whip non è il loro disco migliore, ma è comunque un buon album, in grado di rispettare la storia della band, ma di suonare al tempo stesso attuale e non scontato. Alla fine, aver perso la battaglia delle classifiche contava fino a un certo punto. I Blur hanno vinto la guerra.

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