Se uno legge il dizionario, alla voce ritmo trova: l’organizzazione della durata delle note e delle pause. Ma c’è di più. Il ritmo è l’osso della musica. È una cosa che va oltre i generi, non passa mai di moda. Non importa se viene prodotto da un nagara indiano o da una drum machine statunitense. Tutto ha origine da lì, tutto torna sempre lì.
È una delle cose che vengono in mente mentre ci si trova in un capannone post industriale del Lingotto a Torino, durante il festival Club To Club, ascoltando la musica di Junun, il progetto del chitarrista dei Radiohead Jonny Greenwood insieme al compositore israeliano Shye Ben Tzur e al collettivo indiano del Rajasthan Express. Una musica che viene da lontano e che ha origini geograficamente molto distanti dal luogo in cui ci troviamo.
Eppure c’è un filo che lega il gruppo di Junun a chi salirà sul palco poco dopo di loro, lo statunitense Dj Shadow. Ed è lo stesso filo che la sera precedente legava il rock industrial degli Swans ai ritmi africani di Nan Kolè. È il ritmo.
Il Club To Club è nato nel 2001 nei locali notturni di Torino, ma negli anni, mentre cresceva il suo pubblico, ha saputo ampliare anche lo spettro sonoro. Si è aperto al rock, alla musica sperimentale, alla musica etnica. L’anno scorso ha portato in Italia lo show solista di Thom Yorke, il cantante dei Radiohead, raggiungendo il picco di pubblico.
Quest’anno, non avendo un nome del genere da spendere, gli organizzatori hanno scelto un programma meno altisonante ma ancora più ricco dal punto di vista musicale. L’edizione 2016 del Club To Club, che si è svolta dal 2 al 6 novembre, ha ospitato un’inedita varietà di generi e stili: dalla musica provocatoria del venezuelano Arca, che ha cantato due brani inediti e ha messo in piedi un dj set schizofrenico e spiazzante, all’ipnosi noise degli Autechre, che si sono esibiti in un Lingotto completamente al buio.
Il festival ha fatto qualche giusta concessione alla dance più ballabile, portando sul palco torinese Laurent Garnier e Jon Hopkins, ma ha anche ospitato l’elettronica africana di Nan Kolè e Dj Lag. Il dato del pubblico è stato confortante: 45mila presenze.
Il concerto migliore del Club To Club è stato quello del canadese Tim Hecker, che si è esibito il 3 novembre nella Sala gialla. Vedere uno show di Hecker è come fare un’immersione sott’acqua: si perdono quasi tutti i punti di riferimento. Un muro di fumogeni tra il viola e il rosso avvolge il pubblico dall’inizio alla fine della performance. In mezzo alla nebbia emergono le luci create dall’artista visuale tedesco Mfo.
Stilisticamente, eravamo quasi dalle parti della drone music. Difficile distinguere i brani l’uno dall’altro, anche se a tratti sono affiorate le melodie dell’ultimo album Love streams. Il volume è andato in crescendo, così come l’intensità delle luci e l’enfasi della musica. Dopo un finale quasi noise, Tim Hecker è venuto brevemente fuori dalla nebbia per raccogliere l’applauso del pubblico.
Il 5 novembre c’è stato l’altro momento più interessante del festival, basato su presupposti molto diversi. Quando i musicisti del collettivo Junun sono saliti sul palco verso le 22.30, le luci erano ancora accese. Dopo aver montato le percussioni e aver dato un’ultima accordata agli strumenti, la band ha cominciato a suonare senza dire una parola. Nessun visual, nessuna scenografia particolare.
Sono stati i nove musicisti indiani e il compositore Shye Ben Tzur, il principale autore dei brani, a prendersi la scena. Jonny Greenwood è rimasto nelle retrovie, fin dal backstage, dov’era stato seduto tranquillamente a leggere un libro fino a pochi minuti prima dell’inizio, senza alcuna posa da divo.
Sul palco, Greenwood ha gestito i campionamenti elettronici dal suo portatile, ha suonato il basso e ogni tanto ha tirato fuori la sua Les Paul, facendo ondeggiare il ciuffo quasi a sottolineare le pennate di chitarra. Solo in quei momenti sono tornati in mente per un attimo i concerti dei Radiohead.
Il collettivo Junun (che tornerà in Italia il 10 e l’11 novembre per suonare a Milano e a Roma) è una creatura strana, eppure funziona, proprio perché mette insieme mondi lontani come il rock alternativo di Oxford, la musica israeliana e la tradizione indiana. E, a proposito di ritmo, sa come far ballare il pubblico del Lingotto.
Mezz’ora dopo c’è stato un nuovo salto spazio temporale, quando è salito sul palco Dj Shadow, nome storico dell’hip hop sperimentale statunitense, che ha da poco festeggiato il ventennale dall’uscita del suo capolavoro Endtroducing….
Dj Shadow ha suonato diversi brani di quel disco, oltre a quelli del nuovo lavoro The mountain will fall e ad altri pezzi del suo repertorio. Ascoltando il concerto, mi sono tornate in mente le parole scritte pochi giorni fa dal mio collega Daniele Cassandro: “Endtroducing….. è un album che ha preso la tecnica dell’hip hop e l’ha raffinata fino a portarla in un mondo inesplorato. È per questo che ascoltandolo ancora oggi, a vent’anni di distanza, si ha la sensazione di ascoltare la colonna sonora di un film notturno ambientato in un futuro indefinibile”.
Quello che colpisce di Dj Shadow è soprattutto la sua bravura tecnica, la gestione dei campionamenti, ma anche la capacità di comunicare in modo sobrio con il pubblico e di costruire un live diretto, molto a fuoco e mai troppo autocelebrativo.
Uscendo dal Lingotto a notte fonda, si riportano a casa tutti i ritmi di questi quattro giorni. L’impressione è che gli organizzatori del Club To Club siano stati bravi ancora una volta, soprattutto perché sono riusciti a non sbagliare programma nell’anno della conferma. Il Club To Club resta il miglior festival di musica elettronica in Italia ed è ormai una realtà in grado di confrontarsi con la concorrenza europea.
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