È grande come Lazio, Lombardia e Puglia messe insieme. La penisola del Sinai è parte dell’Egitto, cerniera tra Africa e Asia, stretta tra il deserto israeliano, il mar Mediterraneo, il canale di Suez. È qui che è esploso il volo di linea russo. Ed è qui che restano inghiottiti migliaia di eritrei che scappano dal loro paese cercando di raggiungere l’Europa. Dal 2009 si sono perse le tracce di almeno diecimila persone.

La loro storia l’aveva raccontata Baptiste de Cazenove sul quotidiano francese Libération in un articolo uscito su Internazionale nel 2014. E quest’anno a Ferrara, tra i documentari di Mondovisioni, c’era Voyage en barbarie, di Cécile Allegra e Delphine Deloget. Settantadue minuti sconvolgenti, tre ragazzi sopravvissuti che descrivono le torture subite per mesi dalle bande criminali che li rapiscono per avere un riscatto.

Cifre assurde, fino a cinquantamila dollari, estorte alle famiglie, convinte a pagare dalle ripetute telefonate in cui sono costrette ad ascoltare le urla dei loro figli seviziati e violentati. Molti di quelli che riescono a scappare o che vengono liberati riescono faticosamente ad arrivare in Europa, dove li aspetta la vita dei rifugiati.

I rapitori intanto si arricchiscono, mettono da parte centinaia di migliaia di dollari, ma uno dei ragazzi sopravvissuti si chiede se non sia solo il sadismo a muoverli, il gusto perverso di fare del male e di infliggere del dolore agli altri. La loro storia è uno degli effetti della difficoltà di entrare in Europa, che trasforma dei cittadini di un paese africano nei bersagli di organizzazioni criminali. Se potessero entrare legalmente tutto questo non succederebbe. E migliaia di vite sarebbero risparmiate.

Questa rubrica è stata pubblicata il 6 novembre 2015 a pagina 5 di Internazionale, con il titolo “Liberati”. Compra questo numero| Abbonati

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