“Avrei voluto raccontarvi della città vecchia di Aleppo, dove ho passato una giornata. Dei suoi hammam secolari devastati dall’incendio che ha distrutto uno dei suq più antichi di tutto il Medio Oriente; delle volte di pietra distrutte dai colpi di cannone e della grande moschea degli Omayyadi, che otto secoli dopo la sua costruzione è semidistrutta: il suo minareto del duecento, di epoca selgiuchide, è ridotto a un cumulo di macerie, il colonnato e le cupole delle fontane per l’abluzione sono crivellate di colpi. E invece ho deciso di raccontarvi la storia di una penna”.

Comincia così il reportage dalla Siria del giornalista e documentarista Gabriele Del Grande uscito su Internazionale nel 2013. Del Grande è stato ad Aleppo tra il 3 e il 13 settembre di quell’anno, viaggiando “solo con civili siriani, senza appoggiarsi né all’esercito né ai ribelli”, come ha tenuto a precisare nell’introduzione al reportage. Qualche giorno fa, il 9 aprile, mentre si trovava per lavoro in Turchia, è stato fermato dalla polizia nella provincia sudorientale dell’Hatay, al confine con la Siria.

La scrittrice Elif Şafak calcola che alla fine del 2016 erano almeno 140 i giornalisti detenuti nelle carceri turche. Più che in Cina. Solo nell’ultima settimana, quella del referendum costituzionale, il Committee to protect journalists ha registrato, oltre al fermo di Del Grande, il blocco dei siti di tre giornali; l’inizio del processo contro nove giornalisti turchi accusati di propaganda antigovernativa; l’arresto di Berivan Altan, una giornalista che lavorava per l’agenzia di stampa Dicle (chiusa); le minacciose dichiarazioni di Erdoğan contro Deniz Yücel, corrispondente del quotidiano tedesco Die Welt arrestato con l’accusa di propaganda terroristica e sedizione. “Finché sarò al potere, Yücel non sarà libero di tornare in Germania per nessun motivo”, ha detto Erdoğan in tv. Di solito le dittature funzionano così.

Questa rubrica è stata pubblicata il 21 aprile 2017 a pagina 7 di Internazionale. Compra questo numero| Abbonati

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