Ecco una frase di Leonardo Sciascia che mi porto sempre dietro:
Ogni magistrato, una volta superate le prove d’esame e vinto il concorso, dovrebbe passare almeno tre giorni di carcere fra i comuni detenuti, e preferibilmente in carceri famigerate come l’Ucciardone o Poggioreale. Sarebbe indelebile esperienza, da suscitare acuta riflessione e doloroso rovello ogni volta che si sta per firmare un mandato di cattura o per stilare una sentenza. Ma mi rendo conto che contro un’utopia è utopia anche questa.
Ecco chi in carcere ci finisce per davvero: novemila persone accusate di possesso e spaccio di cannabis, su diciottomila giudicate colpevoli per crimini legati alla droga, su cinquantaquattromila detenuti nel 2014.
Chi è accusato di possesso o spaccio di cannabis in Italia può essere multato, nel migliore di casi; ma può anche finire in galera, se la legge chiama in soccorso la ferocia.
Giusto per usare un’immagine: il disastro riguarda così tante persone che messe insieme formerebbero la ventunesima regione italiana, la decima per numero di residenti. Un’intera regione di tossici e criminali, per la legge italiana.
Dare un’occhiata ai dati può aiutare a capire meglio la situazione:
- i ragazzi tra i 15 e i 19 anni che hanno fumato cannabis almeno una volta nel 2014 sono 690mila (il 24,31 per cento, quasi il 2 per cento in più rispetto al 2013).
- Le persone tra i 15 e i 64 anni che lo hanno fatto sono 2,3 milioni.
- La direzione nazionale antimafia parla di “un mercato che vende, approssimativamente, fra 1,5 e 3 milioni di chilogrammi all’anno di cannabis (…) per un consumo di circa 25/50 grammi pro capite (pari a circa 100/200 dosi)”.
- Se la cannabis fosse legalizzata, i guadagni per lo stato oscillerebbero tra i 5,5 miliardi e gli 8,5 miliardi di euro.
Queste cifre dimostrano il fallimento della decennale lotta italiana contro le droghe leggere. Come tutti i numeri, hanno il dono della chiarezza, ma anche il vizio di ignorare ciò che non è misurabile. E in questa faccenda le cose difficili da misurare sono tante.
Per dire: quanto può pesare anche una sola notte passata in carcere sul resto delle notti della nostra vita? Quanti giorni si passerà a discutere con genitori, amori, professori, capi per convincerli di non essere dei tossicodipendenti? E quanto pesano le ore passate al Sert? Quanta colpa si deve provare se si pensa che in fondo si stanno dando soldi alle mafie?
Ho conosciuto un ragazzo la cui storia può aiutare a rispondere a queste domande, perché c’è di mezzo il suo corpo, e i corpi non mentono, hanno la straordinaria capacità di tradurre in materia anche le angosce più impalpabili, i cavilli più astrusi di una legge, gli errori che tutti potremmo compiere.
Primo intermezzo: voi siete qui
Prima però bisogna capire qual è la situazione in cui ci si muove. Dopo l’abrogazione per incostituzionalità nel 2014 della legge Fini-Giovanardi, la ministra della salute Beatrice Lorenzin ha recuperato con un decreto la Iervolino-Vassalli del 1990.
Ecco cosa stabiliva dal 2006 al 2014 la legge Fini-Giovanardi:
- la differenza tra droghe leggere e pesanti era cancellata.
- Le quantità massime per uso personale erano di cinquecento milligrammi di principio attivo, cioè cinque grammi di cannabis, ovvero dieci-quindici canne.
- Le pene per chi era accusato di spaccio prevedevano una reclusione dai sei ai venti anni; da uno a sei in caso di lieve entità.
- Le sanzioni amministrative prevedevano la sospensione della patente, del passaporto, del porto d’armi e del permesso di soggiorno per motivi di turismo.
Oggi la situazione è questa:
- viene fatta una differenza tra droghe leggere e pesanti.
- Le quantità massime per uso personale sono di cinquecento milligrammi di principio attivo, cioè cinque grammi di cannabis.
- Oltre questa soglia si può incorrere in sanzioni amministrative (sospensione di patente, passaporto, porto d’armi e permesso di soggiorno dai due ai quattro mesi).
- La pena per un piccolo spacciatore va dai sei mesi ai quattro anni.
- L’uso terapeutico è consentito, ma con molte limitazioni.
Il 25 luglio si comincia a discutere alla camera una proposta di legge che potrebbe cambiare ancora le cose. Un intergruppo composto da 220 parlamentari sostiene la legalizzazione della cannabis, e in particolare vorrebbe che:
- l’uso personale non sia più reato, anche se esclude che si possa fumare in pubblico, o guidare dopo aver fumato.
- Le quantità massime per uso ricreativo siano di cinque grammi fuori casa, quindici grammi in casa.
- A casa si possano coltivare fino a cinque piante, basta che lo si comunichi all’ufficio regionale dei monopoli. Il prodotto non si può vendere.
- Si possa dare vita ad associazioni per coltivare fino a cinque piante a testa, per un massimo di cinquanta associati. Il prodotto non si può vendere.
- Anche i privati possano coltivarla e venderla, purché abbiano fatto richiesta di licenza.
- Sia più semplice comprarla per fini terapeutici.
- Il 5 per cento dei ricavi sia investito nel Fondo nazionale di intervento per la lotta alla droga.
Ferdinando Ofria e Piero David dell’università di Messina hanno provato a calcolare il guadagno per l’Italia nel caso in cui la cannabis fosse legalizzata, e lo hanno stimato in 8,5 miliardi di euro all’anno. Jeffrey Miron e Katherine Waldock, in uno studio per l’università Sapienza, sono più cauti e parlano di 5,5 miliardi. Mario Centorrino, Pietro David e Ferdinando Ofria ipotizzano anche che “l’erario risparmierebbe circa due miliardi all’anno di spese per l’applicazione della normativa proibizionista (polizia, magistratura, carceri)”, e che la legalizzazione “produrrebbe un aumento percentuale del pil ufficiale annuo italiano tra l’1,20 e il 2,34 per cento”.
L’indagato veniva pertanto tratto in arresto
Andrea ha trent’anni ed è un sostenitore della legalizzazione. Nell’agosto del 2015 decide di andare al Roots rock reggae di Roviano, in provincia di Roma. Il festival dura un paio di giorni, fa suonare i Villa Ada Posse e ospita Freeweed, l’associazione che da anni si batte per la legalizzazione della cannabis sia per uso ricreativo che per uso terapeutico.
Bisogna sapere che Roviano è un paese abitato da poco più di un migliaio di persone, arroccato sopra la valle dell’Aniene, a cinquanta chilometri da Roma. Bisogna sapere questo prima di leggere nell’ordinanza di arresto di Andrea che i carabinieri di Arsoli il 22 agosto stavano mettendo a punto una serie di operazioni finalizzate “alla repressione del traffico di sostanze stupefacenti (…) nel corso di un pianificato servizio di controllo nel corso di un evento musicale tenutosi in Roviano”. La guerra al traffico internazionale di droga, in provincia.
Ai carabinieri sembra evidente che si trovano davanti a uno spacciatore
Andrea viene fermato a un posto di blocco prima ancora di arrivare al festival. I carabinieri lo fanno scendere, gli chiedono i documenti e dopo un controllo scoprono che ha dei precedenti. “Ho sempre avuto fermi per sostanze, dai sedici ai ventidue anni, ma non ho mai spacciato”, dice. “Poi ho avuto un grave incidente automobilistico, mi hanno amputato buona parte della mano destra e per il dolore neuropatico cronico mi è stata prescritta la cannabis”.
Ce l’ha anche quel giorno, perciò anticipa i carabinieri e tira fuori la ricetta. I carabinieri ridono. In macchina trovano altri tre grammi di hashish e quelle che ai loro occhi sembrano delle caramelle sospette. Decidono che bisogna continuare le perquisizioni a casa di Andrea, ad Anzio, dove trovano una bilancia, un coltello che ha tracce di hashish sulla lama, dei sacchettini di plastica, un armadio con una lampada dentro. Nessuna pianta, nessun altro grammo di cannabis, niente soldi. “L’indagato veniva pertanto arrestato”, si legge nell’ordinanza, e lo portano a Rebibbia.
Secondo intermezzo: cosa succede nel mondo
Uno degli errori più gravi che si può fare nel leggere questa storia è considerarla una storia di provincia, dieci righe nelle pagine di cronaca di un giornale locale. Ma a volerne tirare i fili ci si accorge che i capi partono da un paese e arrivano a un altro, e che bisogna fare continuamente avanti e indietro nel tempo.
Bisognerebbe considerare per esempio che i tre grammi di hashish trovati ad Andrea sono probabilmente marocchini, visto che “l’80 per cento dell’hashish consumato in Europa viene dal Marocco, primo produttore mondiale di cannabis con 47.500 ettari di terre coltivate”.
Bisognerebbe ricordarsi che nel 1998 la sessione speciale sulle droghe dell’Onu pensava che quei tre grammi non sarebbero mai arrivati ad Andrea, visto che credeva nello slogan “un pianeta senza droghe, possiamo farcela” e provava a tradurlo con programmi di guerra mondiale al traffico di stupefacenti.
Bisognerebbe tenere a mente che Andrea non è un’eccezione: ventidue milioni di persone hanno fumato erba o hashish in Europa nell’ultimo anno, spendendo circa nove miliardi di euro e contribuendo a fare della cannabis la droga più diffusa nel continente (il 38 per cento dell’intero mercato illegale).
In Portogallo sono diminuiti il consumo di droghe, l’epidemia di aids e i reati
Bisognerebbe tenere a mente che mentre Andrea finisce in carcere, e una volta uscito non ha nient’altro da raccontare se non una storia di sbarre e processi, un suo coetaneo portoghese potrebbe parlare di quello che per molti è stato un successo.
Nel duemila il Portogallo aveva seri problemi di criminalità legati alla droga e il più alto tasso di hiv tra i consumatori di eroina nell’Unione europea: duemila nuovi casi all’anno su una popolazione di dieci milioni di persone. Lo stesso anno il governo depenalizzava tutte le droghe, cominciando a trattarle come un problema medico e non più come uno penale. Quindici anni dopo in Portogallo sono diminuiti il consumo di droghe, l’epidemia di aids e i reati, come ha riconosciuto l’Onu, e raccontato Wiebke Hollersen sullo Spiegel.
Per quel che riguarda la cannabis, l’Economist si spinge oltre e spiega che la depenalizzazione (sostanze illegali, uso ammesso entro certi limiti, sanzioni amministrative) non basta, che potrebbe anzi essere pericolosa, e che invece la via giusta è la legalizzazione, e cioè la regolamentazione del consumo, della produzione, della lavorazione e della vendita:
Finché la distribuzione delle droghe rimarrà vietata, il suo commercio resterà un monopolio della criminalità organizzata. In Giamaica i boss continueranno ad avere il pieno controllo sul mercato della marijuana. Continueranno a corrompere la polizia, uccidere i boss rivali e promuovere le sostanze stupefacenti tra i giovani. Le persone che comprano cocaina in Portogallo non vanno incontro a conseguenze penali, d’accordo, ma con i loro soldi finiscono comunque per pagare i salari dei teppisti che tagliano teste in America Latina.
Per il settimanale britannico la depenalizzazione ha senso solo se porta alla legalizzazione, così come è successo in Uruguay o in Colorado, negli Stati Uniti. La storia di Andrea dialogherebbe con tutte queste altre storie, se il nostro paese non fosse duro d’orecchio e orbo di fronte a quello che succede nel mondo.
Criminali a prescindere
Bisogna ripeterlo: Andrea finisce a Rebibbia per otto grammi di cannabis in tutto. Ci passa due notti, poi lo scarcerano, ma deve aspettare dicembre per il rito abbreviato: nel frattempo è costretto ai domiciliari. In primo grado lo condannano a due anni di carcere e duemila euro di multa.
Due anni per otto grammi di cannabis; un armadio con una lampada dentro che viene definito come un laboratorio per coltivare cannabis, anche se non ci sono tracce di piante; un bilancino preso al negozio di alimentari dei genitori; la lama di un coltello sporca di hashish; delle bustine di plastica; e quattrocento euro che i carabinieri gli hanno sequestrato al posto di blocco, e dunque prima ancora di arrivare al festival.
C’è un passaggio della sentenza che colpisce: “Per tale delitto – come noto – si prescinde dalla eventuale destinazione a terzi”. Andrea ha presentato ricorso e con gli avvocati Lorenzo Simonetti e Claudio Miglio aspetta il secondo grado di giudizio. Quando gli chiedo se è fiducioso, mi risponde che è stanco.
Terzo intermezzo: una questione mafiosa
C’è una cosa a cui almeno una volta ha pensato chi fuma erba o hashish, un’idea che può svanire in un attimo, oppure ficcarsi in testa come una vite, girare tra i pensieri, avvitarli e confonderli. A me è capitata la vite, e il rumore che fa quando gira ha più o meno il suono di queste domande: non ci riteniamo criminali per quello che fumiamo, ma come la mettiamo con i soldi che diamo a quelli da cui compriamo erba o fumo? Dal momento che sappiamo dove vanno a finire, ha senso disprezzare, condannare, lottare la mafia e continuare a fumare? Ha senso per uno stato spendere milioni di euro nella lotta al crimine e ignorare che altrettanti soldi sono spesi dai suoi cittadini per soddisfare un’abitudine accettata e diffusa?
Per la precisione, secondo l’Istat, ogni anno spendiamo due miliardi e mezzo in prodotti derivati dalla cannabis. Nel dettaglio, dice l’ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine, paghiamo 11,32 euro per un grammo di marijuana e 13,8 per uno di hashish, facendo così del nostro paese il secondo mercato europeo per guadagno da cannabis dopo la Spagna.
In Campania, Sicilia e Calabria le famiglie mafiose festeggiano questi numeri: a volte sparano per difenderli. In una situazione di crisi delle organizzazioni, la droga leggera è diventata una delle fonti primarie di guadagno, tanto che in alcuni casi si prova la via della coltivazione diretta.
L’antimafia parla di un mercato che vende fra 1,5 e 3 milioni di chilogrammi all’anno di cannabis
È quello che succede nelle campagne di Trapani. Questo spicchio occidentale di Sicilia è tra i più belli dell’isola, conserva la memoria degli esuli troiani a Erice e quella degli antichi greci scolpita nel tempio di Segesta, guarda alle isole Egadi ricavandone quiete e alla riserva dello Zingaro traendone meraviglia, può servire sulla stessa tavola cous cous arabi e passiti di Pantelleria, conserva le tracce di Enea così come quelle di Matteo Messina Denaro, capo di cosa nostra latitante dal 1993.
A Marsala, nelle stesse terre disegnate da migliaia di filari d’uva, sono state scoperte numerose piantagioni di cannabis, difese senza guardare in faccia a nessuno. Nella notte del 31 maggio, vicino a una serra da novemila piante di cannabis, è stato ucciso a colpi di pistola il sottufficiale Silvio Mirarchi, probabilmente scambiato per un ladro visto che era in borghese. Un paio di settimane prima due romeni erano stati presi a fucilate in una campagna tra Marsala e Mazara del Vallo dove c’era un’altra piantagione. Uno era riuscito a fuggire, l’altro si sospetta sia stato bruciato vivo, come ipotizzano gli investigatori dopo il ritrovamento di un corpo carbonizzato a un chilometro di distanza.
La direzione nazionale antimafia parla di un quantitativo sequestrato che “è di almeno dieci/venti volte inferiore a quello consumato” e di “un mercato che vende, approssimativamente, fra 1,5 e 3 milioni di chilogrammi all’anno di cannabis”. E il procuratore che la guida, Franco Roberti, non ha molti dubbi: “Davanti a questo quadro, che evidenzia l’oggettiva inadeguatezza di ogni sforzo repressivo, spetterà al legislatore valutare se, in un contesto di più ampio respiro sia opportuna una depenalizzazione della materia”.
Due francobolli per Fiorenzo
La prima cosa che ha fatto Andrea quando è uscito da Rebibbia è stata cambiare il nome del gruppo su Facebook nato per aiutarlo e per far conoscere la sua storia. Il “comitato free tribu” è diventato “Fiorenzo libero e subito!”. Fiorenzo è un uomo di cinquant’anni che ha problemi con la droga da ventisei. Negli ultimi tempi sembrava esserne uscito, fumava erba per dormire e usava la cannabis sotto prescrizione medica. Andrea l’ha incontrato in carcere: “Bisogna che tutti conoscano la sua storia, Fiorenzo è malato e ha bisogno di cure, non della prigione, scrivigli due righe e metti nella busta due francobolli così ti può rispondere, gli farà piacere”.
Andrea aspetta la sentenza che provi che non è criminale, Fiorenzo aspetta due francobolli per raccontare la sua storia. Ed è bello che il primo pensi che dove finisce la sua, per quanto storta e piena di errori, comincia quella del secondo, magari ancora più storta e con ancora più errori, ma che con una legge diversa potrebbe essere raccontata fuori della cella.
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