Si è compiuta da tempo una previsione dello scrittore e giornalista Leo Longanesi. Il 16 giugno 1938 scriveva in un diario che sarebbe stato pubblicato dopo la fine del fascismo:

Fra vent’anni nessuno immaginerà i tempi nei quali viviamo. Gli storici futuri leggeranno giornali, libri, consulteranno documenti di ogni sorta, ma nessuno saprà capire quel che è accaduto. Come tramandare ai posteri la faccia di F. quando è in divisa di gerarca e scende dall’automobile?”.

La lucidità della previsione si mescola all’apparente superficialità della domanda finale: come tramandare ai posteri la faccia di F. in divisa da gerarca? F. ha la faccia di tutti gli scherani grandi e piccoli di quegli anni, è circondato dall’aura della dittatura, è il regime nei suoi riti di ogni giorno, cosa suscita in chi lo guarda? Desiderio? Paura, ammirazione? Erotismo, invidia, orgoglio? Disgusto o noia?

Quarant’anni dopo, la domanda di Longanesi riecheggia nelle considerazioni che Leonardo Sciascia fa in un piccolo e prezioso libro, La noia e l’offesa:

Ci sono ormai tanti libri di storia, il fascismo è stato per ogni verso descritto e analizzato, se ne conoscono le cause, le concause, gli effetti: ma sempre meno i giovani riescono a immaginare il tempo fascista, sempre meno riescono a capire che cosa sia accaduto a due generazioni di italiani: a quella che volle o che fu chiamata a combattere la guerra del ’15-18 e a quella che intorno a quegli anni nacque.

Nel giro di queste poche righe si inscrive anche la mia generazione, quella dei nati tra la fine dagli anni settanta e gli anni ottanta, l’ultima probabilmente ad aver avuto in casa un testimone del fascismo in carne e ossa, un nonno, una nonna, un anziano zio. Ma anche per chi come me ha avuto la possibilità di confrontarsi con i giudizi di conoscenti e familiari (Mussolini era una canaglia; ma che brav’uomo, però), con i loro ricordi (l’Africa che sogno; gli inglesi che farabutti) e le loro cianfrusaglie (una camicia nera, un moschetto), anche per quelli della mia generazione che si sono trovati a fare i conti con tutto questo non è facile “capire che cosa sia accaduto a due generazioni di italiani”.

A ottant’anni dalla previsione di Longanesi e a quarant’anni dalle riflessioni di Sciascia sull’eterno fascismo degli italiani, l’ombra di F. incombe ancora sulle domande che Elvira Frosini e Daniele Timpano – due quarantenni, anche loro nati alla fine degli anni settanta – si rimpallano tra loro e rilanciano al pubblico:

DANIELE – È tutta colpa del colonialismo.
ELVIRA – …
D - Il colonialismo, le colonie, quando eravamo noi a rompergli il cazzo, a questi, a spaccare il culo all’Africa, all’Asia, al mondo intero. Noi. Noi europei. Tutta colpa del colonialismo. Quei quattro-cinque secoli di pacchia.
E - E li dobbiamo scontare tutti adesso? Al bar mentre facciamo l’aperitivo?
D – E certo. È colpa nostra. Tutta nostra. Occidentali e colpevoli. Siamo tutti colpevoli. Colpa nostra. Questi, poveracci, ma che colpe hanno?, sono in fuga, vengono dalla fame, dalle guerre civili, tragedie, naufragi, viaggi nel deserto…
E - Cazzi loro.
D - Non c’eravamo.
E – Adesso che c’entriamo?
D - Ma sì che c’entra. C’entra. C’entra tutto. (Al pubblico) Noi siamo colonialisti? Lo siamo stati? Lo siamo ancora? (A Elvira) Oh, chi ci capisce niente!
E - Non sappiamo niente.
D - Queste cose in Italia non le sa nessuno. Nemmeno noi.
E – (Indicando il pubblico) Nemmeno loro.

Questo brano è tratto dal loro ultimo spettacolo, Acqua di colonia, in scena per il RomaEuropa festival al teatro Quarticciolo di Roma dal 18 al 20 novembre. È uno dei tanti passaggi in cui il pubblico collassa in un cortocircuito di risate e sensi di colpa. L’intero spettacolo è una trappola feroce preparata ad arte da Frosini e Timpano: siamo sul palco, siamo due di voi, bianchi occidentali insicuri, persone per bene, due artisti; siamo come voi, ci stiamo interrogando sulla storia di questa bella Italia fascista, che ricordi; siamo aperti progressisti e comprensivi, siamo voi; ci scappa qualche battuta sul negretto col ritmo nel sangue, a chi non è mai scappata, un po’ di insofferenza per il bangla che ci vende le rose mentre facciamo l’aperitivo; imitiamo Mammy di Via col vento, zignora zignora; ridiamo per l’angelo negro di Ugo Tognazzi, zignore zignore; ridiamo per Faccetta nera ridiamo per Topolino in Abissinia, ridiamo: ma che fate ridete?

È una frazione di secondo, Frosini e Timpano caricano la loro molla comica con infinite citazioni, la stressano con riferimenti culturali divertenti, imitazioni, barzellette, facce e faccette, fanno esplodere la risata del pubblico e poi lasciano che la molla gli ritorni in faccia: ma che fate, ridete? Ridete se vi raccontiamo la storiella di Bob Marley che fa il culo a Audrey Hepburn ambasciatrice dell’Unicef? Ridete se vi facciamo il negro della pubblicità delle Tabù? Ridete perché lo chiamiamo negro?

Lo spettacolo Acqua di colonia. (Piero Tauro)

È difficile raccontare Acqua di colonia senza parlare di questi cortocircuiti. È un falò che i due autori allestiscono sul palco per due ore e in cui bruciano la vanità miserabile degli italiani brava gente. Lo sforzo che chiedono al pubblico è quello di seguirli lungo uno spettacolo che grosso modo può essere riassunto così: siamo qui sopra e non ne sappiamo niente di questa storia del colonialismo, anzi come molti di voi pensiamo che sia acqua passata, però ogni giorno ci rendiamo conto che il somalo con cui prendiamo l’autobus ci parla di quella storia, Gheddafi morto in una pozza di sangue ci parla di quella storia, il barcone che affonda vicino a Lampedusa ci parla di quella storia, perciò qualche dubbio ci viene, il sospetto che c’entriamo eccome con quella storia non ci esce dalla testa, ce ne vergogniamo pure, ripensiamo perfino ai tentativi goffi e in buona fede di rimediarvi, ci sentiamo in imbarazzo quando pensiamo alle adozioni a distanza, arrossiamo se ci fermiamo per un istante ad ascoltare Meryl Streep nel monologo finale di La mia Africa (“Io conosco il canto dell’Africa, della giraffa e della luna nuova africana distesa sul suo dorso… Ma l’Africa conosce il mio canto?”, sette Oscar), perciò ci siamo messi a leggere, a studiare, e se permettete vi facciamo dei bignamini.

I bignamini che Frosini e Timpano fanno per il pubblico sono dissacranti. Mescolano le parole delle guide dell’epoca a quelle dei sussidiari su cui molti di noi hanno studiato, smontano la propaganda fascista e ne svelano parole, concetti e temi che sentiamo ripetere oggi.

Immaginate poi i somali, immaginateli svegli, intelligenti, generosi i somali, ma anche spesso pure loro indolenti e dissimulatori, come tutti gli africani, dice la guida, a pagina 20, ma in generale camminate tranquilli in Africa orientale, che è italiana, e tutti quelli che sono venuti in contatto con noi, con gli italiani, riconoscono a naso la nostra superiorità, la nostra civiltà, il nostro buon carattere, la nostra generosità, la nostra giustizia, la nostra autorità, “italiani brava gente”, dicono, lo dicono anche loro, pensatelo anche voi.

Leggerlo non rende la forza di questo monologo, così come degli altri, perché è impossibile rendere i movimenti ora goffi ora feroci ora infantili dei corpi di Frosini e Timpano. Sono molto diversi tra loro, questi monologhi, sono intervalli nel dialogo tra i due autori (dialogo sulla possibile messa in scena di un loro possibile spettacolo sul colonialismo) e si rivolgono direttamente al pubblico. In uno Timpano si limita a elencare i nomi di tutti i posti al sole che il regime regalò agli italiani, e lo fa con un ritmo e un tono che trasformano quei suoni in un rosario dolce.

In un altro vengono elencati tutti i principi del pensiero occidentale, che però alle prese con l’Africa non fanno che inciampare in luoghi comuni, o addirittura in oscenità.

ELVIRA - È che non sono intelligenti come noi, l’ha detto pure il barista sotto casa.
D – Sì, proprio non ce l’hanno nel dna, non ci arrivano.
E - I negri d’Africa non hanno ricevuto dalla natura nessun sentimento che si elevi al di sopra della stupidità.
D – Sempre il barista sotto casa?
E – No, Immanuel Kant. E poi sono ingovernabili, “Moriranno sempre di fame. Sempre. Sono destinati. Se qualcuno non li governa, non ce la faranno mai”.
D – Anche questo è Kant?
E - No, è mia cugina Veronica. “Si ostinano a non entrare nella storia”. “Zoologicamente e non storicamente sono uomini. Si cerca di addomesticarli e addestrarli, ci si sforza di svegliarli ad uomini, è ciò che si chiama l’incivilimento dei barbari e l’umanamento dei selvaggi.”
D – Ma tua cugina è filosofa?
E – No, questo l’ha detto Benedetto Croce.

In un altro Frosini si trasforma in un Pier Paolo Pasolini straordinariamente somigliante e lo spettatore ha l’impressione di trovarsi davanti all’intellettuale corsaro e a tutti i suoi corsari tic: la manina destra al fianco, gli occhialoni scuri, la pedanteria dell’insegnante perpetuo, l’ego dell’artista apocalittico, il ritornello dell’io so ma non ho le prove, quello dell’avevo previsto tutto, quello della scomparsa delle lucciole e del mondo preindustriale. Fino a che compare sulla scena Timpano nei panni di Ninetto: il volto di quel mondo autentico distrutto dal capitalismo occidentale, nella visione di Pasolini; un moderno angelo negro, ci dicono Timpano e Frosini, su cui anche Pasolini riversa la sua ipocrisia di borghese occidentale bianco (“Ti insegno io le cose, ti civilizzo, ma ora spostati”).

È uno dei passaggi più crudeli dello spettacolo, e il pubblico ride più che in altri momenti. Nel mirino dei due autori ci sono i benpensanti, una categoria di persone molto ampia che per Timpano e Frosini abbraccia i proprietari milionari di locali al Pigneto (“’a borgata de Pasolini”), gli eredi un po’ straccioni e un po’ opportunisti degli intellettuali impegnati degli anni sessanta e settanta, lo stesso pubblico che va a vedere uno spettacolo in un teatro di periferia come il Quarticciolo, e anche chi poi di quello spettacolo scrive sui giornali.

Ma per quanto crudele e calibrato, l’attacco ai radical chic è anche uno dei passaggi più deboli del testo: è una lama che Timpano e Frosini affilano con un tocco di cinismo per épater le bourgeois, ma alla fine non taglia. Il discorso diventa a tratti autoreferenziale e perde di efficacia: la borghesia che dissacra la borghesia interessa solo alla borghesia.

Le bordate dei due autori funzionano meglio quando allargano il raggio e arrivano al cuore del problema. La storia del fascismo è una storia coloniale, ma il colonialismo non è una storia solo fascista. Il sogno di prendersi il proprio pezzo d’Africa nasce già nell’Italia postunitaria, ne accompagna i primi passi. E sebbene fosse già una missione antistorica, in ritardo rispetto alle imprese coloniali del resto d’Europa, si concretizza negli anni dieci del novecento. Prende la forma di regni conquistati, donne stuprate, villaggi rasi al suolo e terre sfruttate. Con Mussolini raggiunge l’apice. Gli intellettuali, gli artisti, i giornali sono tutti conquistati alla causa dell’impero. La missione è liberare i poveri etiopi dalla schiavitù, nientemeno. Sul Corriere della Sera si potevano tranquillamente vedere immagini di donne e uomini etiopi schiavi: “È il negus a ridurli così, andiamo a liberarli”.

Vi ricorda qualcosa?

Negli anni in cui Mussolini va alla conquista dell’Africa, Vitaliano Brancati ambienta uno dei suoi racconti più belli. S’intitola La noia del ’937 ed è la ricostruzione dissacrante del fracasso con cui il regime accompagna la nascita della sua Africa orientale italiana. Soldati, prefetti, balilla, camerata, è tutto un trepidare, tutta un’eccitazione per l’impresa, tutta una risata sulla faccia del gerarca F., e Brancati che fa? In mezzo a tutto questo tripudio di moschetti e partenze e spose nere giovani, dà vita a un personaggio che si annoia, estrema nemesi della vitalità balorda del regime.

Chi non conosce la noia, che si stabilì in Italia nel 1937, manca di una grave esperienza che forse non potrà avere più mai, nemmeno nei suoi discendenti, perché è difficile che si ripetano nel mondo quelle singolari condizioni. Non che tutti in Italia si annoiassero, o almeno credessero di annoiarsi. La maggior parte anzi credeva il contrario, di star bene o addirittura di essere felice (…) Eppure sarebbe bastato che, dal mezzo di un giardino popolato di persone che si ritenevano felici, erompesse una risata dei vecchi tempi, una di quelle risate squillanti, energiche, di autentica e personale gioia, perché tutti trasalissero di stupore, d’invidia e infine di vergogna.

Brancati, “sui vent’anni fascista fino alla radice dei capelli”, come disse di sé, capisce quanto è miserabile il sogno in cui è cresciuto, e quanto è brutale la cultura in cui si è formato, e per scorticarli si affida all’ironia. La stessa strada scelta da Frosini e Timpano.

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