I bambini di Una nuova amica di François Ozon, personaggi secondarissimi, guardano gli adulti, imparano dagli adulti e crescendo diventeranno, molto probabilmente, anche più incerti, insoddisfatti, nevrotici e “perversi” dei loro genitori. È una delle morali che si ricavano da questo ennesimo film di Ozon sul desiderio, sulle fragili identità sessuali, sulle libido mal fissate (direbbe Freud) che sono la sua ossessione e che sembrano essere una costante del nostro tempo, a giudicare da film romanzi commedie e cronache che ne trattano.
Ad affrontare di petto la questione fu sul finire degli anni ottanta lo spagnolo Pedro Almodóvar, forte della fine di una dittatura basata sulla triade patria-chiesa-famiglia. I suoi primi film esprimevano la necessaria liberazione dalle repressioni precedenti, che non erano solo politiche. L’ottica era libertaria, ma diventò presto una nuova forma di conformismo.
Anche in Italia, nello stesso decennio, dopo lo scialo delle sfrenate infermiere, segretarie, zie e cugine degli anni settanta, dimostrazione palese dell’infantilismo del maschio nazionale, quel che era sfogo diventò maniera, con una nuova classe emergente e al potere: la sfrenata piccola borghesia che divorò quel che restava del proletariato e della borghesia facendone un unico pastone di inedita volgarità (quegli anni avranno per sempre un nome, Berlusconi, ma non hanno certamente risparmiato la sinistra, che perse ogni diversità e autonomia, e diventò uguale).
Ma in Francia? Forte di tradizioni borghesi molto più solide, si trattò – e Ozon ne è la dimostrazione – di un aggiornamento “con stile”. L’ottica era qui razionale, cartesiana, nella quale l’esplorazione delle varietà del desiderio fa parte di una tradizione (da Sade a Laclos, da Bataille a Breton), che in Ozon si fa semplicemente più mediatica e riguarda tutti, privata di ogni super-io e ogni dover essere: esplorazione come affermazione, come difesa e illustrazione di nuovi modi di affermare i diritti del desiderio quali che siano (dopo il ’68 anche quelli dei pedofili, per esempio). Basta trovare (o conquistare, o corrompere) i partner adeguati: e ce n’è sempre uno, nel mucchio.
Ozon si è fatto una specialità del racconto delle varianti meno abituali dei comportamenti sessuali nell’ottica tardoborghese, o meglio di quella piccola borghesia universale che è proprio quella di oggi, ma di cui già Adorno diceva che si considera “la depositaria dell’umano”. In altri film (Sotto la sabbia, CinquePerDue, Nella casa) lo ha fatto con un po’ più di verve e originalità che qui, forse perché questo lo ha scritto da solo, senza l’aiuto di cosceneggiatrici, donne che gli portavano se non altro uno sguardo altro e più vario.
Qui la levigatezza della confezione, da rivista di moda o di arredamento, la prevedibilità della costruzione, dominano sulla trama e ne tolgono perfino la morbosità, rendendo patinata anche quella. Il romanzo di Ruth Rendell che è alla base della storia è certamente più insinuante del film che ne ha tratto Ozon, con i suoi personaggini che sembrano figurine ritagliate dalle riviste di cui sopra anziché persone fatte di carne e di istinti.
Di due amiche di famiglie molto “bene” una muore, la sopravvissuta scopre che il marito ama travestirsi da donna e pian piano resta presa nel gioco trascurando il suo, di sposo. Con quel che ne segue, e con un finale positivo di nuova “coppia di fatto”, due signore di cui una dotata dell’organo maschile della riproduzione.
Il mondo va avanti, anche se l’irrimediabile incontro tra eros e thanatos insidia qua e là l’armonia dell’ordine borghese. Non ci si scandalizza e tanto meno ci si indigna, ma certamente ci si annoia (il film sfiora spesso il ridicolo, ma fallisce anche in questo). E se si vuol proprio saperne di più sui desideri e le varianti o deviazioni sessuali degli esseri umani, meglio ricorrere al vecchio e ben più “scandaloso” manuale di Krafft-Ebing (del 1886) caro al Pasolini di Porcile, ma augurandoci che non capiti nelle mani di Ozon, che normalizzerebbe anche quello.
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