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Ci s’interroga subito sul senso di questa operazione e si cercano risposte che il film dà solo in parte, o che non corrispondono sempre alle prime considerazioni che vengono in mente.

Perché un classico della fiaba (e della novellistica, ma la novellistica – Boccaccio – è spesso borghese, la fiaba – Basile, Pitrè – ha sempre origini popolari, e orali), che purtroppo la maggior parte dei lettori italiani ancora ignora? Perché un film ascrivibile al genere del fantasy, ma diverso da (e anzi in concorrenza con) le maxi puttanate hollywoodiane e le spielbergate? Perché un film in fuga dalla storia e dalla nostra contemporaneità mutante e perché la fascinazione dei seicento, del barocco? Perché questa propensione per l’horror? Eccetera.

Il racconto dei racconti ci comunica una sensazione di anacronismo ma non di sfida, di deviazione ma non di provocazione. Eppure non si riesce a considerarlo come una vacanza dell’autore da temi più attuali e più forti (anche se i legami con gli altri suoi film ci sono e come, non solo con i morbosi Primo amore e L’imbalsamatore, anche con la fiaba moderna Reality e le cronache nere di Gomorra).

Chiaramente il suo impegno è stato enorme: si è fatto anche produttore-organizzatore e ha pensato e voluto il suo film per un pubblico internazionale, in concorrenza col cinema più costoso e spettacoloso. Ha voluto correre grandi rischi, e c’è anche la possibilità che debba pagarne lo scotto, perché è difficile pensare a un successo di pubblico grande come quello che deve avere sognato: Il racconto dei racconti non è affatto un film astuto e facile e si tratta pur sempre, e come sempre con Garrone, di un “film d’autore”.

Dunque: perché? Ipotizziamo. Il seicento è un secolo che somiglia molto al nostro, viene dopo una grande mutazione, il cambiamento dell’immagine del mondo e della storia del pianeta con la scoperta dell’America e la conquista; il barocco ci appartiene forse oggi come non mai: barocco è il mondo, ammoniva già Gadda, altro che neorealista!; dal barocco si scivola presto nel gotico e nell’horror (e penso alle scene di peste scolpite in cera da Gaetano Zumbo, di straordinaria attualità e di cui nessuno sembra ricordarsi); mutano, con la mutazione, anche i sogni, l’immaginario, e i deliri del seicento sono affini ai nostri.

Il seicento è anche il teatro elisabettiano con la sua visionarietà e dismisura: il cuore strappato di Peccato che sia una puttana, per esempio, Il demone bianco, e ovviamente Shakespeare, la Tempesta del vecchio mondo che incontra il Caliban delle Americhe (e già Calvino aveva avvertito che tra le fiabe di Giambattista Basile e quelle di Shakespeare c’erano stretti rapporti. E già i Grimm avevano capito che il sottofondo popolare di Basile era lo stesso dei loro contadini, anche se in Basile contava altrettanto la cultura alta, debitamente riportata al basso per mescolarla con quello).

Ipotizziamo, ma non siamo convinti fino in fondo. Non crediamo che Garrone abbia avuto ben chiaro dove voleva arrivare. Più probabilmente, ha cercato di capire le basi della sua ispirazione (quella dei film già fatti e quella dei film che farà) scavando nel passato di una cultura collettiva, antropologica e non storica, quale ci viene rivelato dalla fiaba (la fantasia che nasce dall’inconscio collettivo, dall’umano più concreto in mescolanza e sintonia con il mondo vegetale e con quello animale: e sta in questa unione e in questo scambio il fascino maggiore del film) e non dalla storia (la ragione che interpreta e spiega).

Però tutto questo si rivela infine un freno, perché l’apparato – il costo proprio economico di un’operazione del genere – non aiuta la libertà dell’ispirazione, e invece la costringe. E così lo sforzo di meravigliare e affascinare si dimostra faticoso, non libero – nonostante la bellezza delle immagini – e le tre fiabe non s’intrecciano in una. Il gioco dei doppi è affascinante, e lo sono i castelli e le grotte, le corti e le stamberghe, le belle e le bestie, le perle e le viscere, la gioventù e la vecchiaia, il basso e il sublime, il vero e il magico, il seicento e il duemila.

Ma la gran furia di un barocco trionfale e di un barocco mortale è come se non fossero furia abbastanza, non ci trascinano e travolgono abbastanza. Non ci portano dentro la fiaba e nel suo panico, ce ne lasciano esterni. Il racconto dei racconti non ci riporta all’infanzia come avrebbe voluto o dovuto (non è certamente un film da e per bambini). Non trova il cammino per coinvolgerci, è un Pollicino che non semina abbastanza sassolini da poterne fare una guida per portarci da qualche parte.

Garrone subisce il tempo, il nostro, non esce forte e saggio dalla foresta delle immagini e delle suggestioni. Forse gli chiedevamo troppo, perché la sua è una condizione comune: ci perdiamo tutti nella giungla degli incubi e dei segni, e non sappiamo dove stiamo andando, dove ci stanno portando, dove vorremmo andare.

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