Non avevo molto da vedere al cinema, così, sperando in una piacevole regressione, ho scelto l’ultimo film di animazione della Pixar/Disney, stupito del suo successo di pubblico e avendone sentito parlare con ammirazione da molti bambini e da molti adulti, ma anche con irritazione e noia da pochi altri bambini e da pochi altri adulti.
Credo sia onesto che io confessi la mia prevenzione contro i pupazzetti dagli occhi di manga e per i peluche giganti, e la mia delusione per il fatto che le enormi potenzialità artistiche del disegno animato – certificate da una lunga storia – siano state appiattite dal mercato, in particolare quello statunitense ma anche quello giapponese (Miyazaki è geniale, d’accordo, ma è anche il marchio di una macchina che per reggere deve sia innovare sia ripetere e che risente di questo sforzo) e altri.
Dico subito che Inside out non mi è piaciuto e che trovo poco educativa l’isteria che finisce per comunicare agli spettatori bambini: la frenesia delle sue rincorse, dove le variazioni sono meno importanti delle ripetizioni, della velocità con poche pause, che peraltro riguardano solo la parte umana e terrestre della vicenda inventata. Pete Docter e i suoi cento o mille collaboratori, un’enorme catena di montaggio, e in particolare i consulenti psicologi e analisti del mercato cui la Pixar dà il compito di studiare cosa può piacere e cosa no al pubblico bambino e ai loro genitori, e di studiare i modi migliori per far loro gradire i suoi prodotti, hanno un obiettivo: rendere appetibile, “smerciabile”, il film e i suoi derivati.
Inside out
Niente di molto nuovo rispetto alla vecchia Disney. Oggi però la nuova economia (la nuova finanza) impone investimenti più grandi e programmi più massicci e, mi sento di poter dire, non solo merci piacevoli, di successo, ma anche idee sul mondo e modelli di comportamento. In questo senso, se è lodevole che l’animazione affronti l’astrazione psicofilosofica come avviene in questo film, attraverso personaggi identificabili anche dai bambini, lo è certamente meno che lo faccia, a parer mio, per rispondere a un dettato generale della società americana che ha ambizioni globali.
Cerco di portare il discorso all’estremo: Inside out racconta come, in un mondo altro molto tecnologico (le pile e pile di palline-memorie, di palline-idee che ne riempiono gli scaffali), i sentimenti basilari della psicologia umana (pupazzetti che rispondono ai nomi di Gioia – per inciso il più invadente, lezioso e antipatico – e Tristezza, Rabbia, Paura e Disgusto) intervengano e anzi guidino le azioni degli umani, in questo caso la protagonista Riley, undicenne trapiantata dal Minnesota a San Francisco da affettuosi genitori middle class.
Nella definizione di questi sentimenti primari si mescolano mitologie antiche extracristiane ed extramonoteiste, gli dei dell’Olimpo e del politeismo, gli istinti primordiali, gli angeli custodi di più tradizioni, ma soprattutto, per via tecnologica, gli incubi di Philip K. Dick e le fantasie di Matrix. Svanisce il libero arbitrio e resta l’idea di una “macchinosa” manipolazione delle nostre azioni.
È insomma – forse esagero, ma forse no – come se, partendo non a caso dai bambini, un potere nuovo voglia abituarci all’idea di una nostra dipendenza da entità astratte ma ben presenti nella realtà, e voglia abituarci ad agire di conseguenza, assistiti e guidati da chi pensa per noi e ci spinge dove vuole lui.
È un sospetto? È già così? Molti anni fa si parlò – e sembrava fantascienza – di persuasori occulti. In ogni caso, la grande mutazione dell’umanità è certamente già in atto, e su questo credo si sia d’accordo quasi tutti. Ma il mondo ipotizzato da Inside out a me fa paura, e ai miei nipoti cerco di far vedere qualcosa di più tradizionale e di più umano. Di meno preoccupante su quel che s’intende fare di loro e di noi.
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