Carol di Todd Haynes è un film a suo modo perfetto. Ed è questo che affascina e nello stesso tempo allontana. Questa eleganza, questo controllo, questa misura, questa bellezza. In Carol sembra non esserci niente di sbagliato – nella sceneggiatura, nella regia, nella ricostruzione d’epoca (gli anni cinquanta, con le citazioni minime e precise del contesto, Ike e Mamie, McCarthy e Billie Holiday), nell’interpretazione misurata e ineccepibile, nei movimenti di macchina e perfino in quelli delle automobili. Come in un romanzo di Edith Wharton, come in un film di David Lean.

Todd Haynes sa quello che vuole da sempre, da quando ci stupì con l’intelligenza sottotono di Safe (che esaminava tra i primi gli effetti della new age e che ci rivelò Julianne Moore) e con Lontano dal paradiso, il remake indiretto di un film di Douglas Sirk, Secondo amore, che ha ispirato anche Fassbinder, e dove però il giovane bianco anni cinquanta, amato contro tutti dalla vedova borghese, diventava un giovane proletario nero.

È strano, che si debba rimproverare a un film la sua perfezione

Vuole raccontare le contraddizioni più intime di un mondo, preferibilmente di ieri, le psicologie sottili del nascosto e rimosso che vogliono venire alla luce, ma controtempo, contro cioè le ipocrisie dominanti. Che però cambiano nel tempo, e ciò che ieri faceva scandalo si candida oggi all’Oscar e probabilmente ne vincerà per una delle due brave attrici, come è accaduto qualche anno fa per il film su un amore gay però maschile di Ang Lee, I segreti di Brokeback mountain.

Attraversiamo gli anni del “politicamente corretto” e di tutto si può dire tranquillamente, soprattutto se serve a costruire nuovi conformismi. Di amore lesbico si tentò di parlare apertamente solo nel cinema di Weimar e intellettual-parigino, e a Hollywood ci provò per due volte a distanza di vent’anni William Wyler su uno stesso testo di Lillian Hellman (La calunnia, Quelle due) con coperture e giravolte che erano in entrambi i film imbarazzanti.

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Ma è comunque lodevole, molto, che si parli apertamente delle molte forme dell’amore, tanto più se è di amore che si tratta, e Carol è un film importante, più, per esempio, di quello gridato ed esaltato di Abdellatif Kechiche, La vita di Adele. È un film importante, ed è un film troppo bello. Ricostruisce perfettamente un’epoca e le sue contraddizioni, ma non sembra voler scavare nelle contraddizioni di oggi come, per esempio, ha tentato due o tre volte di fare, pur dentro una prigione hollywoodiana per gran parte accettata, Gus Van Sant quando ha parlato di giovani e di giovanissimi.

Sapienza drammaturgica

L’aspetto più affascinante di questo film è il modo in cui racconta l’amore – il nascere e l’approfondirsi del sentimento, la spinta del desiderio, l’attenzione e la tenerezza dell’una per l’altra (idem est dell’uno per l’altra, dell’una per l’altro, dell’uno per l’altro) – e il coraggio in cui lo pone al primo posto nella ricerca della serenità o piuttosto della pienezza del singolo. Con la giusta lentezza, e con un’esemplare sapienza drammaturgica. Ricordiamo ben pochi film così pacatamente convinti e convincenti, e però…

È il suo fascino di “opera chiusa” controllatissima ad attrarre e a piacere, ma nello stesso tempo , in qualche modo, ad allontanare. Si ammira e ci si emoziona, si è catturati e rispettosi, ma tutto è così al giusto posto che si desidererebbe, come si cercava di teorizzare un tempo da più parti, non l’apice dell’opera chiusa né la trasandatezza dell’“opera aperta”, ma un’opera chiusa con qualche apertura sul dietro e l’a tergo, o sull’oltre: una imperfezione rivendicata, forse indispensabile a un dialogo forte con il proprio tempo, per non fermarsi a psicologie e comportamenti, per cercare una rottura e per tentare una verticalità.

È strano che si debba rimproverare a un film la sua perfezione. Non era perfetto, tra parentesi, il romanzo di Patricia Highsmith a cui, con molta libertà, l’ottimo Haynes si è ispirato, chiudendone le aperture.

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