Nella grande famiglia dei “film maledetti” che alla loro uscita non godettero del consenso del pubblico e nemmeno di quello della critica, A cavallo della tigre, finalmente disponibile in dvd, rappresenta un caso insolito e su cui riflettere. Lo realizzarono nel 1961, mettendoci i loro soldi, nel pieno del miracolo economico, al tempo della Dolce vita, di Tutti a casa, del Sorpasso, dell’Avventura, del Posto, di Accattone, gli autori stessi della sceneggiatura con l’aiuto di un giovane produttore, Alfredo Bini. Comencini (anche regista), Monicelli, Age e Scarpelli erano quattro giganti della commedia all’italiana, ma il film non piacque allora quasi a nessuno, e sono pochi quelli che lo videro.

E invece è un piccolo capolavoro che racconta con disinvolto rifiuto delle convenzioni, ma rifacendosi un po’ a I soliti ignoti e un po’ al Buco di Jacques Becker (bellissima storia di un’evasione dal carcere e del suo fallimento), un’Italia marginale e scombinata, a malapena sfiorata dal boom, piena di personaggi bizzarri e però vivi e veri, della parte di un popolo che non sa di esser tale e dentro una storia che non sembra riguardarlo.

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I protagonisti principali sono un Nino Manfredi, truffaldino incapace, perfetto nelle sue fallimentari e confuse aspirazioni piccolo-borghesi, e Mario Adorf, sanguigno e contraddittorio sottoproletario, un assassino capace del peggio e del buono, con una morale diversa ma altrettanto confusa. Sono con loro, nella fuga, a far da contorno, un intellettualino citazionista (Gian Maria Volonté alle sue prime prove in cinema) che è in carcere per aver cercato di ammazzare la moglie traditrice e “il Sorcio”, un gregario senza qualità (Raymond Bussières, presente per ragioni di coproduzione).

Giacinto Rossi, cioè Manfredi, partecipa all’evasione costretto dalle circostanze e non per convinzione, ché anzi ha cercato inutilmente di fare la spia, per poter uscire prima dal carcere e rivedere moglie e figli. La sua morale è malcerta e retorica, come quella degli altri e, si direbbe, anche dei carcerieri e delle persone tutte che incontrano nella fuga. Per definirla, Age e Scarpelli inventano qui quel linguaggio che diventerà basilare in tanti altri loro film, la lingua dei sottoproletari o proletari che cercano di parlare come si parla alla televisione o nei fotoromanzi, ricavandone effetti comici e definizioni sociali (Straziami ma di baci saziami, Dramma della gelosia…).

Di episodio in episodio, prima dentro il carcere e poi in un paesaggio che ha cominciato a perdere d’identità, girovagando intorno a Civitavecchia, i quattro evasi si lasciano e si ritrovano dentro un altro tipo di carcere, da cui davvero non possono evadere. La loro indefinitezza e inadattabilità morale e sociale li porta al peggio e al meglio. E Giacinto, saputo della taglia che sta sulla loro testa di evasi, si fa denunciare dalla moglie ritrovata e dal suo nuovo uomo, per aiutarli nella sopravvivenza loro e dei suoi figli. Probabilmente è stata questa ambiguità ad aver determinato l’insuccesso del film, in un anno in cui l’economia andava forte e il progresso si scatenava. Era un’ambiguità troppo grande rispetto a quella dei Gassman del Sorpasso, dei Sordi di Una vita difficile, “cattivi” simpatici ma che il film giudica e punisce o “buoni” riscattati dai loro cedimenti e viltà da una nuova verginità sociale, “di sinistra”.

Piccola epopea sottoproletaria, e infine, a vederla oggi, quasi una fiaba senza tempo, A cavallo della tigre è un piccolo capolavoro che merita visioni e discussioni. La casa di produzione dei quattro grandi della commedia all’italiana avrebbe dovuto produrre, dopo A cavallo della tigre, L’armata Brancaleone, che potrà vedere la luce solo cinque anni dopo, e che avrà un successo clamoroso. Sia detto infine per inciso: i quattro autori venivano tutti e quattro, a quanto ricordo, da una tradizione socialista un po’ ottocentesca e non si muovevano in area comunista.

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