La notizia della morte di Ronconi è arrivata la sera del 21 febbraio mentre molte delle persone del mondo del teatro erano in scena o seduti in una qualche platea; e poi è rimbalzata al solito sui telefonini e i social network. Ma per chi fa teatro, in quel messaggio c’era un senso differente: gli attori, i registi, gli appassionati, sono spesso in viaggio: “Ciao, maestro”, o anche “È morto il teatro”, era un modo per dichiararsi una famiglia d’elezione.
Poi, certo, il teatro non è morto: semplicemente piange quello che è stato forse il più grande regista italiano del novecento e oltre. Il teatro è vivo ed è composto da sguardi molto diversi: c’è chi Ronconi lo ha venerato come un oracolo, e chi ha odiato i suoi spettacoli, ma soprattutto chi avendo una poetica opposta non poteva non prenderlo come asse di riferimento.
E questo sì, è qualcosa che è andato perduto. Un’idea di cardine, a cui accostarsi o da cui prendere le distanze.
Quel cosiddetto teatro di regia che faceva sì che il nome stesso di Ronconi fosse sinonimo di regia, se non di teatro; e che lui fosse il regista, per antonomasia.
Un certo teatro, dunque, è sicuramente finito; e con questo lutto (dopo quello di Giorgio Strehler, di Massimo Castri) cala il sipario su un secolo lungo, e irripetibile, della cultura italiana.
Sintetizzare Ronconi è impossibile: una parabola artistica larger than life. La sua direzione degli stabili che ha trasformato l’idea non solo di quegli spazi, ma della scena culturale di quelle città: a Torino, a Roma e a Milano, c’è un pre-Ronconi e un post-Ronconi.
Come molte sue produzioni, diventate talmente leggendarie – l’Orlando furioso, Gli ultimi giorni dell’umanità, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Lolita – che sicuramente resteranno un’eredità esplicita, ma spesso anche inconsapevole, per molti dei teatranti anche futuri che non le videro al tempo.
Il segno di Ronconi. Per chi ha visto anche dieci minuti di una sua messa in scena è forse facile capire cosa s’intende. A partire dall’attenzione agli attori, che lo portava a plasmare insieme a loro una recitazione antinaturalista che si meritò l’aggettivo di “ronconiana”; al suo amore per le grandi narrazioni della letteratura, e l’ambizione, salutare per una scena autoriferita (come spesso è quella del teatro italiano), di farne non dei semplici adattamenti ma delle reinvezioni tout-court, opere a sé.
Ma forse ciò che sarebbe preziosissimo traghettare nel futuro è il suo approccio rigoroso, intelligentissimo, coltissimo; un modello di instancabile curiosità. Quella che lo portò dal convegno di Ivrea del 1967, dove nacque il Manifesto per un nuovo teatro, ai grandi allestimenti fino all’opera lirica. E l’attenzione sempre rinnovata per il lavoro degli attori, per cui ha voluto lavorare con figure dal registro diversissimo, da Massimo Popolizio a Fabrizio Gifuni (entrambi protagonisti del suo ultimo lavoro, Lehman Trilogy), da Marisa Fabbri a Maria Paiato. E infine una curiosità rivolta non solo ai classici ma anche per la lingua del teatro di oggi, testimoniata dalle scelte degli ultimi anni di mettere in scena drammaturghi come l’argentino Rafael Spregelburd (Il panico, La modestia) o Stefano Massini (Lehman trilogy).
Ecco allora che forse raccontare Lehman trilogy appare il modo migliore di ricordare Luca Ronconi. Perché il teatro è forse l’unico rito laico in grado di fare i conti con la morte, sia pure senza speranza di vittoria.
Del resto anche questa sua ultima sfida era ambiziosissima: rappresentare l’economia a teatro. Ronconi riconosceva che chi ci si è avvicinato maggiormente è stato Bertolt Brecht, scrivendo però in un’epoca molto più ideologizzata della nostra. Il fatto è che l’economia, e la finanza ancor di più, è quanto di più lontano dalla sfera dell’umano (ossia ciò che è solitamente al centro dell’atto teatrale).
Numeri, astrazioni, immaterialità: si tratta con tutta probabilità della più extra-umana delle attività inventate dall’uomo e trascinarla in teatro è quasi come cercare di portare in scena qualcosa che contraddice il teatro stesso.
E non va meglio al cinema, dove per parlare degli eccessi della finanza si finisce per parlare degli eccessi esistenziali dei suoi protagonisti – come in The wolf of Wall Street. Ma l’inafferrabilità del denaro? Il suo essere sfuggente, gelido, impositivo?
Eppure Lehman Trilogy di Stefano Massini, in scena al Piccolo Teatro Grassi di Milano fino a metà marzo, riesce da subito a richiamare sul palco il freddo dei numeri, della finanza evanescente, dell’anonimato del turbo-capitalismo, trasformandolo in un caldo materiale teatrale: relazioni, corpi, voci.
Probabilmente perché Massini sceglie saggiamente di partire dal racconto di una storia che è un’epopea, una vicenda che a suo modo parla anche di riscatto sociale e di fondazione, scomodando i meccanismi della saga e del racconto epico che il teatro da qualche anno sta interrogando con una certa insistenza (la teatronovela Bizarra di Spregelburd/Cherubini, Francamente me ne infischio di Antonio Latella, o lo spettacolo mai nato dell’Accademia degli Artefatti One day che doveva durare 24 ore e che non andò mai in scena proprio a causa della crisi del 2008).
La trilogia dei Lehman è divisa in due spettacoli.
Il primo racconta la vicenda di tre fratelli, Henry, Emanuel e Mayer Lehman, i tre patriarchi della dinastia che arrivò a fondare una delle più imponenti e aggressive banche d’affari. Ma agli albori di questa storia Henry Lehman (il nome è l’americanizzazione di Hayum Lehmann) è un emigrante che giunge dalla Germania nel sud degli Stati Uniti per fare fortuna.
La troverà commerciando in cotone, che assieme ai suoi due fratelli Emanuel e Mayer – rispettivamente “il braccio” e “la patata”, mentre Henry è “la testa” – accetta come forma di pagamento da parte dei coltivatori dell’Alabama.
Ben presto la rivendita del cotone diventerà l’attività principale della Lehman Brothers (il nome che prende la società con l’arrivo dei due fratelli), che accumulerà in questo modo una fortuna. Ma Henry Lehman, è un uomo della tradizione: saldi principi e forti valori religiosi.
Il ritratto che ne fa Massini è quello di un uomo dalla moralità esemplare; e con lui il drammaturgo fiorentino sembra assolvere il capitalismo delle origini, legato strettamente alla produzione di beni materiali e a un’etica del lavoro che invece non avrà più corso pochi decenni più avanti.
E visto che noi tutti, in sala, viviamo ancora oggi i disastrosi effetti della crisi del 2008, cominciata proprio col crack della Lehman Brothers, il confronto risulta immediatamente impietoso senza che Massini sprechi una sola parola per rimarcarlo.
Questa prima parte ha un incedere maestoso e affascinante, grazie a una drammaturgia a orologeria che dosa alla perfezione il ricorso agli espedienti narrativi – come il gusto che Massini ha per gli elenchi, che svelano i sogni, le fantasie e le ossessioni dei personaggi.
Ronconi lo asseconda creando un dispositivo in cui gli attori, che entrano ed escono dai personaggi assumendo anche la funzione di didascalia, si muovono come per assonanza, come dentro un’orchestrazione sonora.
E così lo spettatore, che magari si affaccia con cautela nel dispositivo, quando entra in accordo non riesce più a uscire dalla storia.
Certo, un merito innegabile ce l’hanno gli attori, tutti enormi: da Fabrizio Gifuni (Emanuel), che affronta la doppia prova (di un lavoro in gruppo dopo i suoi fortunati assoli e del confronto col teatro di Ronconi) e che si conferma in uno stato di grazia; a Massimo Popolizio, che è di una bravura tecnica impressionante e domina quasi sornione un personaggio che ondeggia tra una (pretesa) ottusità vegetale (“Bulbe” la patata) e l’acume di intuizioni che più di una volta si rivelano risolutive per il destino dell’impresa; fino a Massimo De Francovich, che sfoggia una presenza ieratica e quasi magnetica, in grado di celebrare semplicemente calcando la scena quella tempra morale e quei valori religiosi che sono al centro della tesi iniziale del testo di Massini.
Lo spettacolo prosegue con la seconda parte della trilogia (divisa tra il primo e il secondo spettacolo) dove spicca la figura di Paolo Pierobon che accompagna, alla maniera ronconiana (dentro e fuori dal personaggio; intensità e antinaturalismo), il personaggio di Philip Lehman. È il cambio di passo, il momento in cui la borsa e la finanza fanno il loro ingresso nella vita della compagnia, e davvero niente è più come prima.
È vero che già alla morte di Henry, avvenuta a causa delle febbre gialla, i due fratelli superstiti hanno notevolmente ingrandito il campo degli affari: Emanuel ha portato la Lehman a New York, dove le borse di scambio dei vari settori come il cotone si uniscono in un’unica gigantesca borsa valori.
Mayer ha finanziato una banca per la ricostruzione dell’Alabama dopo il disastro della guerra di secessione, che ha seriamente intaccato anche gli interessi di Lehman Brothers. Ma è con la nuova generazione che tutto cambia. Che si comincia a “fare i soldi dai soldi”, svincolando l’economia dalla produzione reale.
È qui che l’appetito della macchina societaria scavalca definitivamente l’individuo e persino i due vecchi patriarchi, che non devono più muovere un dito perché in fondo sono soltanto i proprietari e oramai c’è un consiglio di amministrazione che decide per loro.
Si tratta, ovviamente, di un modo di pensionare il vecchio capitalismo, comunque legato alla produzione e agli oggetti, per entrare a pieno titolo nell’era immateriale.
I due vecchi Lehman, per quanto alla fine della loro esistenza abbiano accumulato una fortuna immensa e la compagnia sembri crescere ancora e senza ostacoli, assomigliano in verità a due sconfitti. Dei ricchissimi perdenti.
Nel secondo dei suoi spettacoli va in scena la finanza. Ed è il mondo nuovo, ogni cosa si trasforma: la scrittura, la recitazione, la regia.
Peterson e Gluksman, che subentrano alla famiglia Lehman e segnano il definitivo scollamento dell’attività umana da quella finanziaria, sono personaggi grotteschi, quasi caricaturali. Le luci si fanno livide, i loro dialoghi sembrano provenire come da sott’acqua, da una dimensione infera.
È certo tutto meno scorrevole e godibile di quanto avviene nella prima parte, senza nulla togliere al lavoro di attori come Danis Fasiolo o Raffaele Esposito. Ma persino la drammaturgia di Massini sembra ora sospesa, chiusa in una bolla, anziché procedere spedita trainandosi dietro il pubblico. Per quale ragione?
La prima risposta è quella della premessa: ancora una volta il teatro e la finanza fanno a botte, sono elementi non componibili quando il secondo riempie la scena, il primo sembra inesorabilmente arretrare, come in un esperimento puramente chimico.
L’epica dei patriarchi si è esaurita e ci lascia davanti solo desolazione.
Eppure viene il sospetto che ci sia qualcosa in più. Che questa sospensione sia un effetto calcolato, o comunque previsto. Che alla scelta di Massini e Ronconi di raccontare i fratelli Lehman dall’ottica che non ci si aspetta, quella “positiva” dell’epopea originaria, debba collegarsi necessariamente una deflagrazione dello stesso meccanismo. In virtù del quale il racconto epico che ci ha trascinato dalla metà dell’ottocento alla seconda guerra mondiale va poi per forza di cose a infrangersi contro l’immaterialità e l’inumanità del mondo finanziario di oggi. E ne è anzi la più perfetta rappresentazione.
Non è ancora tutto, però. Uscendo dal teatro permane l’impressione che manchi ancora un ultimo tassello, una ragione più profonda di perturbamento. Pian piano tornano a coagularsi nella mente le immagini di Roberto Zibetti che è quasi comico nei suoi discorsi dal pulpito, quando con l’eco nella voce trasforma il discorso politico (interpreta Herbert Lehman, governatore di New York, filiazione politica della famiglia) in un discorso episcopale. Lo stesso avviene con l’estasi di Pierobon–Philip Lehman quando immagina di tagliare in due il Panamà, separando le Americhe; e anche con la frase che aleggia nei consigli di amministrazione della compagnia: non si tratta più semplicemente di far soldi, ma di cambiare il mondo.
Eccolo il tassello che manca. Talmente evidente e banale da risultare invisibile. Non è altro che l’ideologia: quel motore narrativo che permetteva a Brecht, poco meno di un secolo fa, di assemblare il suo discorso sull’economia con affilata chiarezza. Ma siamo poi certi che questa che viviamo sia davvero un’epoca meno ideologizzata?
Non è che invece questa convinzione sia frutto di un errore di valutazione, di una sorta di “etnocentrismo politico” della cultura di sinistra che tende a identificare la parola “ideologia” con l’accezione con cui essa stessa l’ha utilizzata durante tutto il Novecento?
Perché a ben guardare quel “voler cambiare il mondo”, l’idea cioè che sia possibile riplasmarlo secondo i dettami dell’economia finanziaria di modo che tutto, ma proprio tutto, qualsiasi aspetto della vita umana, non solo quella lavorativa ma anche quella biologica e culturale, sia un elemento da mettere a profitto – ebbene tutto ciò ha innegabilmente a che fare con una forma di ideologia.
Massini e Ronconi lo lasciano intuire allo spettatore, come un sottotesto costante. È una forma di ideologia che non consente alla troika di trattare il debito pubblico della Grecia su un piano politico, anziché sul piano inflessibile dei numeri. È l’azzeramento dell’idea che esista un’altra parte sociale, quella dei diritti dei lavoratori, della loro stessa presenza corporea. È un’idea di mondo in cui la vita di una persona vale meno di un credito che si deve riscuotere.
Questa forma di ideologia è oggi così inconfutabile e pervasiva da risultare a volte persino invisibile: proprio un fantasma come quelli che popolano da sempre i palcoscenici.
In fondo, l’ultimo degli infiniti spettri che, dopo tutta una vita passata a inseguirli, ha voluto evocare in scena Luca Ronconi.
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