Caro Guido Vitiello,
sono un insegnante di lettere, insegno anche e soprattutto poesia. Solo che quasi tutte le poesie (ne salvo dieci, venti, diciamo) mi fanno cagare. Soprattutto quelle di alcuni reputati autori del novecento, come Ungaretti, Caproni, Luzi. Io a uno che scrive “Chiuso fra cose mortali / (anche il cielo stellato finirà) / perché bramo Dio?”, gli darei un calcio forte forte nelle palle. Mi arrivano libri di poesia da leggere o recensire e io li apro e li chiudo immediatamente, perché mi si stringe lo stomaco. Normale, dirai tu, con tanta feccia in giro. Ma il problema è che questa idiosincrasia mi si sta proiettando all’indietro, su Pascoli, Leopardi (Leopardi!), Foscolo, Ariosto, Dante (Dante!). Sto cominciando a pensare che scrivere in versi sia un errore evolutivo, un baco concettuale, una cazzata. Caro Guido Vitiello, posso fare qualcosa? Guarire? O devono guarire gli altri, e io sono l’unico che ha capito la Verità? Del resto, anche Sandro Bondi è poeta. Grazie

—Anonimo Costernato

Caro Costernato,
quadri sintomatici come il tuo sono già noti a noi bibliopatologi. Mi permetto di consigliarti due libri recenti. Il primo è dello scrittore americano Ben Lerner e si chiama The hatred of poetry; vien fuori che i poeti sono i primi a detestare la poesia. Il secondo, I poeti sono impossibili di Alessandro Carrera, circolava anni fa in un’edizione semiclandestina e ora Luca Sossella l’ha ripubblicato in una versione ampliata e aggiornata. Qui troverai un saggio che fa al caso tuo, “Come difendersi dalla poesia atroce”. Riporto l’incipit, per il suo interesse clinico:

Ho ricevuto, non molto tempo fa, alcuni volumi di poesia da un editore che conosco. Ne ho aperto uno e immediatamente, dico immediatamente, ho provato la sensazione impellente, pruriginosa, elettrica perfino, di scagliare il libro fuori dalla finestra e richiuderla con fragore. Non l’ho fatto, mi sono trattenuto da un gesto così alfieriano e ho cercato, una volta ritrovata la calma, di capire quale relais linguistico mi era scattato nei nervi. Alfieri aveva scaraventato dalla finestra il Galateo di Monsignor Della Casa perché, a suo parere, un libro che cominciava con la parola conciosiacosache non aveva il diritto di essere letto.

È un eccellente esempio di autoanalisi, e di autodisciplina. Ma vedo bene che il tuo problema è aggravato dal cursus retrogrado del morbo. “La bruttezza del presente ha valore retroattivo”, diceva Karl Kraus, e così si finisce per far scontare a Jacopone da Todi le colpe di Sandro Bondi (l’accostamento non è casuale, perché è dura rileggere Donna de Paradiso dopo aver scoperto la lauda a Rosa Bossi Berlusconi: “Mani dello spirito/ Anima trasfusa/ Abbraccio d’amore/ Madre di Dio”). Tutti abbiamo sghignazzato per l’inconfessabile zoorastia carducciana di “T’amo pio bove”; chiunque abbia letto la satira di Gadda su Foscolo scoppia a ridere al solo nome di Luigia Pallavicini; e conosco una persona affetta dal tuo stesso morbo che non riesce a trattenersi quando sente il leopardiano “Perivi, o tenerella”.

Prova però a superare la fase Bruce Lee, quella del “calcio forte forte nelle palle” (sic) a Ungaretti, che poi, poveretto, dovrebbe starsene un’intera nottata con la bocca digrignata volta al plenilunio a invocare un andrologo, e fai crescere il tuo germe di violenza nella direzione della satira. Oltretutto, è più efficace. Quando l’umorista Gino Patroni scrisse i versi “Ognuno pranza solo / alla mensa popolare. / Una zuppa di verdura / ed è subito pera”, per il permalosissimo Quasimodo, futuro premio Nobel – che immagino sia in cima alla tua lista di insopportabili, come lo è della mia – fu un colpo ben più doloroso del summenzionato calcio.

Aggiungo solo una postilla sulla questione più generale che poni. È ben possibile che la poesia sia un errore evolutivo, un baco concettuale, ma è un errore della stessa specie di quelli che (spoiler alert) spingevano Zeno Cosini a sognare un “esplosivo incomparabile” collocato nel centro della Terra.

Dunque, a meno di voler metter fine al pianeta, impariamo a convivere con la poesia e i poeti, così come conviviamo in questa calda estate con i balli coordinati in spiaggia, le Birkenstock, la techno latinoamericana, le zanzare, i festival della taranta, gli sciagurati sul lettino che si fotografano le cosce non sempre glabre, le orche assassine, i racchettonisti. Abbi un po’ di pazienza, sono tutte cose di cui prima o poi ci libereremo (anche il cielo stellato finirà).

Il bibliopatologo risponde è una rubrica di posta sulle perversioni culturali. Se volete sottoporre i vostri casi, scrivete a g.vitiello@internazionale.it

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