22 marzo 2017 16:31

Gentile bibliopatologo,
vivo da ormai due anni negli uggiosi Paesi Bassi, e nonostante il mio olandese sia abbastanza buono per gli acquisti di casa, non è sufficiente per leggere libri in quella lingua. Mi mancano i libri in italiano, e più ancora mi mancano le biblioteche, perché mi piace leggere volumi già letti da altri. Mi piace pensare che quelle macchioline di caffè siano dovute a un’avida lettura a colazione. Che le pagine siano raggrinzite perché qualcuno le ha lette nella vasca. Che la gente ci abbia starnutito e ci si sia addormentata sopra. Insomma, mi piace che questi ammassi di carta e inchiostro siano stati vivi nella mente e nelle mani di qualcun altro. Mi sono comprata un lettore di ebook, utile e maneggevole. Però non è la stessa cosa. Ti sembra strano che abbia nostalgia di quei libri toccati e stratoccati? Perché, come direbbe la mamma, saranno anche pieni di batteri.

–Luisa

Cara Luisa,
è rivelatore che per te la nostalgia dei libri in italiano e la nostalgia dei libri stropicciati sfumino l’una nell’altra, e ancor più rivelatore è che tu chiuda la tua lettera con un accenno alle raccomandazioni della mamma. Ti manca una patria, e una patria non è mai incolore, inodore, insapore, astratta e impersonale. Forse è più preciso dire che ti manca una Heimat, parola tedesca resa celebre dai film di Edgar Reitz che allude a qualcosa di più inafferrabile e al tempo stesso di più materno. Casa, focolare, appartenenza ancestrale, aura o genio del luogo, infanzia e anche (o soprattutto) lingua madre. Una nozione romantica che pencola su un cavo di funambolo e che, se non si sorveglia passo per passo il suo cammino, rischia fatalmente di cadere nel nazionalismo o nel kitsch. I tedeschi – tra il Blut und Boden (“sangue e suolo”) dei nazisti e le sdolcinature folcloristiche degli Heimatfilm degli anni cinquanta – si sono sbilanciati da entrambi i lati. Non mi pare che il nazionalismo sia tra i tuoi pericoli. Ma il kitsch?

Dici che ti piace immaginare che le macchioline di caffè sui libri siano la traccia di una lettura a colazione. Non so se usi Instagram. Se hai, come sospetto, molti amici lettori, la domenica mattina potrai assistere all’entusiasmante galleria di un nuovo genere di nature morte, la cui iconografia canonica annovera di solito questi elementi: una tazza di caffè, una brioche fresca su un piattino di ceramica, un vasetto di marmellata con il tappo coperto di stoffa, un tovagliolo ricamato, un fiore posato con negligenza su una trapunta o su un vassoietto, il supplemento culturale di un quotidiano e infine l’elemento immancabile, un libro. Il tutto inquadrato dall’alto, e debitamente invecchiato, o addolcito, con l’ausilio di qualche filtro.

In una lettera a Witold von Hulewicz del 1925 il poeta Rainer Maria Rilke offrì tutto quel che serve per illuminare, dal passato, il kitsch di questo nuovo genere fotografico-pittorico:

Ancora per i padri dei nostri padri una casa, una fontana, una torre sconosciuta, persino la propria veste, il loro mantello, erano infinitamente più, infinitamente più familiari; quasi ogni cosa un vaso, in cui essi già trovavano l’umano e accumulavano ancora altro umano. Ora incalzano dall’America vuote cose indifferenti, apparenze di cose, parvenze di vita (…) Le cose animate, vissute, consapevoli con noi, declinano e non possono più essere sostituite.

Sui libri cartacei si è concentrata da qualche tempo la nostalgia di un’intimità perduta con le cose. Ma è nella natura di questa intimità l’essere perduta. In un dibattito radiofonico sulla nozione di Heimat, nei primi anni settanta, lo psicologo Alexander Mitscherlich suggerì di riformulare Heimweh (“nostalgia”) come Heimatweh. Quella casa materna è da sempre e per sempre perduta, perché non è mai esistita, è una chimera retrospettiva, una tenace illusione bovaristica, una fata morgana. Se dalla Germania ci spostiamo in Canada, troveremo un’idea molto simile in una bellissima canzone di Joni Mitchell, Big yellow taxi, che ripete alla fine di ogni strofa: “Non va forse sempre così, che non sai ciò che avevi finché non l’hai perduto?”. Prima che arrivassero gli ebook, non mi pare di ricordare tutta questa passione per la materialità dei libri, per le macchie, le orecchie, le sottolineature, le pagine ingiallite o tarlate.

Ma una volta intuito il grande arcano, ossia la natura tutta immaginaria di queste nostalgie, una volta addomesticata la chimera, può essere saggio tenersela accanto e coccolarla un po’. In Heimat di Edgar Reitz, un musicista sperimentale registra i suoni del villaggio, la natura sul punto di scomparire, il canto dell’usignolo, e con gli strumenti dell’elettronica li rifonde in una composizione d’avanguardia. Qualcosa di simile fanno i miei amici ogni domenica mattina, ricreando con l’estremo artificio dei filtri di Instagram un idillio senza tempo e senza luogo. Ed è bene che resti lì, sugli schermi dei telefoni. Il cavo del funambolo è davvero molto sottile.

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