Gentile bibliopatologo,
da quando ho dovuto cambiare stile di vita, non ho potuto più dedicarmi alla lettura. Di necessità virtù, ho cominciato a drogarmi di audiolibri: se ne trovano parecchi, anche di buona qualità. Riesco a leggere in auto, facendo jogging, mentre cucino. Oltre al piacere ritrovato, mi chiedevo se leggere con le orecchie abbia gli stessi benefici della lettura con gli occhi. In fondo si sollecitano le stesse facoltà mentali: immaginazione, memoria, intuito, abilità a concentrarsi. Secondo me questo tipo di lettura potrà sostituire del tutto il modo classico, con il libro tra le mani e gli occhiali sul naso. Che ne pensa?

–Carlo

Caro Carlo,
ci sono due vie per rispondere alla tua domanda. La prima mi sta lì davanti, spianata e invitante come un’autostrada a quattro corsie, ma non ho molta voglia di imboccarla: è quella che mi guiderebbe a parlare di cultura orale e civiltà della scrittura, della gerarchia dei sensi in occidente, del primato che l’occhio si guadagnò sull’orecchio e che l’orecchio è tornato da qualche tempo a contendergli. Tutte cose interessanti ma piuttosto scolastiche.

Preferisco partire dalla coda della tua lettera, e dal dettaglio che hai scelto per evocare l’immagine classica del lettore: “Con il libro tra le mani”. Sembra un’inezia, ma è l’inezia decisiva: ed è, credo, il motivo per cui la lettura, pur impegnando principalmente un senso (la vista), si presta male a diventare un’attività di sottofondo.

Non foss’altro perché bisogna tenersi questo piccolo ingombro tra le mani, o al limite in una mano sola (Rousseau parlava dei “livres qu’on ne lit que d’une seule main”, ed è diventato un modo proverbiale per riferirsi alla letteratura erotica). È il libro come oggetto fisico il problema, un fardello che può essere dolce come un neonato, ma che come un neonato impedisce di dedicarsi ad altro.

Sapessi in quanti lampioni ho incocciato, caro Carlo, e quante volte ho rischiato di finire sotto un tram nella vana speranza di legger camminando e camminar leggendo per le strade di Roma!

Dici che ascolti libri facendo jogging, e hai l’aria di fare una vita molto attiva. Sarei curiosissimo di sapere cosa ascolti

Poi dice Talete e il pozzo: ma Talete non aveva le buche, le transenne, i lavori in corso, i bulli in scooter e quelle temibilissime signorotte che avanzano imperterrite con il carrellino della spesa. Anch’io quindi, a un certo punto, sono stato tentato dagli audiolibri. Per un breve periodo ho provato a portarmeli perfino in palestra, ma credimi, era uno spettacolo miserando, anzi lo ero io: avevo dei cuffioni da Teletubbies, una tuta che pareva il pigiama di un bimbo di otto anni, e ascoltavo Le città invisibili di Italo Calvino pedalando su una cyclette. Tu dici che ascolti libri facendo jogging, e hai l’aria di fare una vita molto attiva. Sarei curiosissimo di sapere cosa ascolti.

Due cure a confronto
Mi ricordi un caso con cui ha avuto a che fare di recente un mio collega. Ebbene sì, ho un collega! Non è proprio un bibliopatologo, preferisce definirsi un biblioterapeuta. La differenza è sottile, ma tutt’altro che speciosa e accademica: il bibliopatologo, che poi sarei io, cura le perversioni legate ai libri e non di rado causate dai libri; il biblioterapeuta, che poi sarebbe lui, cerca di guarire malesseri di altra origine – ansie, frustrazioni, depressioni – suggerendo letture appropriate.

Ad accomunare le due professioni è il fatto trascurabile di non esistere. E infatti il biblioterapeuta in questione è il protagonista di un romanzo, Le parole degli altri, del giovane scrittore francese Michaël Uras, appena pubblicato dall’Editrice Nord. Anche lui viveva il suo mestiere con un misto di solitudine e megalomania – “Il Biblioterapeuta, l’unico, il solo. Io rappresento nella mia persona la Biblioterapia”–; e anche lui rimediava al suo isolamento con qualche plurale truffaldino: “Un ‘noi’ è sempre rassicurante. Come una maglietta di scorta. Così dicendo ho l’impressione di lavorare insieme con una squadra di quindici collaboratori”. Finalmente questo noi esiste, e anche se ne mancano altri tredici per arrivare a quindici, il tuo è il primo caso a essere trattato da un team di specialisti. Stai entrando nella storia, Carlo.

Ma veniamo al paziente del biblioterapeuta di Uras. Era un tale che leggeva moltissimo nell’adolescenza e nella prima giovinezza, finché ha trovato un impiego nel settore dell’orologeria di lusso e, come te, è stato costretto a smettere. In preda all’esaurimento professionale, o burn-out, si rivolge al biblioterapeuta, che compila diligentemente una scheda con un’ipotesi di lavoro: Oblomov di Ivan Gončarov, La lentezza di Milan Kundera, i Saggi di Michel de Montaigne. Il centro della terapia è Oblomov, il personaggio più pigro della letteratura mondiale.

Amanti gelosi ed esigenti
Ecco, caro Carlo: per avere dimostrazione della differenza tra libri e audiolibri prova ad ascoltare Oblomov mentre fai jogging, e ti accorgerai presto che c’è una contraddizione stridente e insostenibile tra la tua corsa accaldata e la vita di quell’uomo che era un’appendice del suo stesso divano.

Ma non si tratta solo di riscoprire la lentezza in un’epoca frenetica (luogo comune stantìo: ogni epoca ha creduto di essere frenetica, e le biciclette cominciarono a sembrare lente solo quando arrivarono le automobili).

Si tratta semmai di capire che i grandi libri, come amanti gelosi ed esigenti, vogliono importi il loro ritmo, e raramente questo ritmo si accorda con quello di un’altra attività. Oblomov vuole assorbirti, risucchiarti nella sua palude d’inerzia, di disperazione camuffata da accidia. Non si accontenta di una parte della tua attenzione, e il suo orgoglio signorile gli impedisce di appiattirsi e farsi sottofondo al jogging o alla cucina.

La “ricezione nella distrazione”, formula che Benjamin coniò per il cinema, si adatta male alla letteratura. Io dico che si adatta male anche all’ascolto musicale (ascoltare una cantata di Bach giocando a ping pong?), ma quanto meno la musica ti lascia le mani libere.

Finché ci sarà quel fagottino di carta da cullare, non sarà questione di occhi o di orecchie, ma di mani.

Il bibliopatologo risponde è una rubrica di posta sulle perversioni culturali. Se volete sottoporre i vostri casi, scrivete a g.vitiello@internazionale.it

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it