Dopo che Ahmed Merabet, un poliziotto francese, è stato ucciso fuori degli uffici di Charlie Hebdo a Parigi il 7 gennaio, suo fratello Malek ha dichiarato: “Mio fratello era musulmano ed è stato ucciso da due terroristi, da due falsi musulmani. L’islam è una religione di pace e amore”.

È stato commovente, ma dire che tutti i musulmani che commettono azioni crudeli e violente in nome di Dio sono “falsi musulmani” è come dire che i crociati che devastarono il Medio Oriente novecento anni fa erano “falsi cristiani”.

I crociati erano veri cristiani. Credevano di fare la volontà di Dio quando tentavano di riconquistare le terre, un tempo cristiane, che erano state conquistate dall’islam secoli prima, e avevano il sostegno della maggioranza degli europei.

Allo stesso modo, Saïd e Chérif Kouachi e Amedy Coulibaly credevano di essere veri musulmani al servizio della volontà di Dio, e nei paesi a maggioranza musulmana alcune persone sono d’accordo con loro. Ma c’è un’importante differenza con le crociate: i sostenitori dei giovani terroristi francesi sono ovunque una minoranza, e tra i musulmani che vivono nei paesi occidentali sono una piccola minoranza.

Questa non è una “guerra di civiltà”. Diciassette innocenti uccisi a Parigi non sono l’equivalente delle crociate. Se è per questo, non lo era neanche l’11 settembre. Si tratta di eventi tragici e terribili, ma non di una guerra.

C’è una guerra in corso, ma è una guerra civile all’interno della “casa dell’islam” che talvolta si ripercuote anche sui paesi non musulmani. Come soldati coinvolti in questa guerra, i tre assassini di Parigi probabilmente non capivano pienamente il loro ruolo, ma erano al servizio di una strategia piuttosto sofisticata.

Due di queste guerre civili musulmane, in Afghanistan e Iraq, sono state scatenate dalle invasioni guidate dagli Stati Uniti nel 2001 e nel 2003. Altre quattro, in Siria, in Libia, in Yemen e nel nord della Nigeria sono cominciate nel 2011. Altre risalgono a tempi ancor più lontani, come la guerra in Somalia, oppure si sono infiammate per poi ridivenire latenti, come in Mali e in Algeria.

In ciascuna di queste guerre le vittime sono in grande maggioranza musulmani uccisi da altri musulmani. Di tanto in tanto, in altri paesi, vengono uccisi anche dei non musulmani, come a New York nel 2001, a Londra nel 2007, a Mumbai nel 2008 e ora a Parigi. Queste uccisioni hanno un obiettivo strategico, che non è affatto “terrorizzare i non musulmani e costringerli a sottomettersi”.

La grande guerra civile dell’islam riguarda la modernizzazione politica, sociale e culturale del mondo musulmano: deve seguire più o meno la stessa strada imboccata da altre grandi culture mondiali oppure questo cambiamento deve essere arrestato e invertito? Gli estremisti islamici sostengono quest’ultima posizione.

Alcuni aspetti della modernizzazione sono seducenti per molti musulmani. Per questo, arrestare il cambiamento richiederebbe molta violenza, incluso il rovesciamento della maggioranza dei governi al potere nei paesi musulmani. Ma è proprio questo il compito che gli estremisti islamici in generale, e i jihadisti in particolare, si sono assunti.

Essendo una minoranza anche nei loro stessi paesi, il compito più difficile per i jihadisti è mobilitare il sostegno popolare a favore della loro battaglia. Il modo migliore per farlo è convincere i musulmani che la modernizzazione (democrazia, uguaglianza e tutto il “pacchetto” culturale) fa parte di un complotto occidentale per indebolire l’islam.

Questa affermazione è più credibile se i paesi occidentali attaccano davvero i paesi musulmani. Per questo una delle principali strategie dei jihadisti consiste nel commettere atti terroristici per spingere gli eserciti occidentali ad attaccare paesi musulmani. Questo era il vero obiettivo dell’11 settembre, ed è stato un enorme successo: ha convinto gli Stati Uniti a invadere non uno ma ben due paesi musulmani.

Ma anche gli attacchi terroristici meno spettacolari, che provocano la persecuzione delle minoranze musulmane nei paesi non musulmani, servono la causa. Possono scatenare delle rappresaglie contro le minoranze musulmane locali, generando così ulteriori “prove” che è in corso una guerra contro l’islam.

Per coincidenza questa strategia ha un nome francese: la politique du pire (la politica del peggio). È la strategia di far precipitare la situazione fino a raggiungere il suo obiettivo finale: in questo caso, delle rivoluzioni che spazzeranno via i governi al potere in quasi tutti i paesi musulmani e metteranno al loro posto degli islamisti.

In alcune delle guerre mediorientali esiste un tema secondario che confonde un po’ le acque: in Siria, in Iraq e in Yemen la radicalizzazione generale ha anche rinvigorito e militarizzato il secolare conflitto tra musulmani sunniti e sciiti. Ma anche in questi paesi le vittime per la maggior parte sono sunniti uccisi da altri sunniti.

Ci saranno altri attacchi come quelli di Parigi, perché giovani uomini smarriti in cerca di una causa abbondano in ogni comunità, incluse quelle musulmane in occidente. Non possiamo arrestarli tutti. Per questo dovremo accettare una certa dose di terrorismo, proveniente da gruppi estremisti islamici e non, cercando di non reagire in maniera spropositata. Proprio come stiamo facendo ormai da molti decenni a questa parte.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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