Se il congresso statunitense non avesse imposto un limite di due mandati alla presidenza nel 1947, dopo il record di quattro vittorie elettorali di Franklin D. Roosevelt, a novembre Barack Obama sarebbe rieletto senza problemi. Ha ereditato la peggiore recessione dopo la grande depressione, e ora gli Stati Uniti hanno l’economia più sana tra quelle delle principali potenze, con un tasso di disoccupazione inferiore al 5,5 per cento.

Obama però non può ricandidarsi, quindi i commentatori stanno cominciando a esprimere i loro giudizi sui suoi successi e fallimenti. Il primo è stato Jeffrey Goldberg della rivista The Atlantic, che in un lungo articolo intitolato The Obama doctrine (La dottrina Obama) ha esaminato la sua gestione della politica estera statunitense durante i due mandati.

Un’eresia

Come c’era da aspettarsi dato che si parla di un uomo la cui regola numero uno è “non fare stupidaggini”, l’articolo di Goldberg si concentra soprattutto su quello che Obama non ha fatto. Non è andato in guerra contro il governo di Bashar al Assad in Siria. Non si è impantanato in una nuova guerra fredda con la Russia all’epoca della crisi in Ucraina. Non ha bombardato l’Iran, ma ha siglato un accordo politico per bloccare il suo programma nucleare. Non ha attaccato la Corea del Nord quando quest’ultima ha condotto dei test nucleari.

Nessuna di queste scelte sarebbe degna di nota se stessimo parlando del Giappone, del Canada o della Germania. Perfino in ex potenze coloniali come il Regno Unito e la Francia, dove il riflesso interventista è ancora vivo e vegeto, le scelte di Obama non avrebbero suscitato grandi dibattiti.

Tuttavia, agli occhi dell’establishment della politica estera a Washington, che tende a pensare che ogni conflitto del pianeta sia un problema statunitense e ha a disposizione una forza militare praticamente illimitata, l’approccio di Obama è stato un’eresia. E i democratici l’hanno avversato tanto quanto i repubblicani.

Con il senno di poi Obama pensa che la politica di Clinton in Siria sia stata il più grave errore della sua presidenza

Eppure, nonostante nel 2009 l’amministrazione Obama avesse ereditato i disastri delle guerre di George W. Bush in Afghanistan e in Iraq, la sua prima segretaria di stato, Hillary Rodham Clinton, è stata una tipica interventista.

Dopo aver lasciato l’incarico nel 2013, Clinton ha detto a Goldberg che “l’incapacità di formare una credibile forza combattente a partire dalle persone che avevano dato origine alle proteste contro Assad… ha lasciato un vuoto che è stato riempito dai jihadisti”. Ma in realtà Clinton ha avuto quello che voleva in Siria.

Il vero fallimento della politica statunitense in Siria nel 2011 è stato tollerare che la Turchia, il Qatar e l’Arabia Saudita mandassero armi e soldi per sovvertire la fragile rivoluzione non violenta e rimpiazzarla con una rivolta armata il cui vero obiettivo era instaurare uno stato islamico sunnita, non una democrazia laica.

Obama e Clinton sono entrambi responsabili del fatto che gli Stati Uniti abbiano preso parte a quest’operazione all’inizio del 2012, fornendo ai siriani armi originariamente destinate alla Libia per evitare la supervisione del congresso.

A quel punto ormai le manifestazioni non violente avevano subìto una durissima repressione e la Siria stava precipitando nella guerra civile che avrebbe provocato la morte di trecentomila persone e trasformato metà della popolazione in profughi.

Oggi la maggior parte dei siriani pensa che sarebbe stato meglio accettare il fallimento del movimento non violento e la sopravvivenza dell’esecrabile regime di Assad piuttosto che vedere il paese praticamente distrutto. Sospetto che con il senno di poi Obama pensi che la politica di Clinton in Siria sia stata il più grave errore della sua presidenza, ma si è in parte riscattato rifiutando di bombardare la Siria nel 2013.

Un politico attivista

Nel 2014 Clinton ha detto a Goldberg che “le grandi nazioni hanno bisogno di princìpi organizzativi, e ‘non fare sciocchezze’ non è un principio organizzativo”. Nessuno ha mai sostenuto il contrario, ma è comunque un buon vademecum quando occorre prendere delle decisioni sulle politiche concrete, e Obama si è dimostrato piuttosto coerente nel rispettarlo anche riguardo al Medio Oriente.

La sua intuizione fondamentale – e il più importante elemento di rottura con l’ortodossia espressa dall’establishment della politica estera statunitense – è stata capire che pochissimo di quanto succede o potrebbe succedere in Medio Oriente rappresenta una vera minaccia agli interessi vitali degli Stati Uniti. Perfino la sicurezza di Israele è un problema più sentimentale che strategico, sebbene come tutti i politici statunitensi anche Obama sia costretto a fingere che non è così.

Israele sarebbe davvero in pericolo solo se gli estremisti del Fronte al nusra e dello Stato islamico dovessero assumere il controllo di tutta la Siria, e l’intervento militare russo a sostegno di Assad ha di fatto eliminato questa possibilità. Perciò Obama è stato libero di concentrarsi sulle questioni che ritiene davvero importanti, quelle in cui ha compiuto dei progressi reali.

La politica estera di Obama è stata minimalista solo in rapporto ai criteri della guerra fredda e del lungo, profondo e in larga misura inutile impegno statunitense in Medio Oriente. Con la sua idea di spostare la sua attenzione verso l’Asia, con il ristabilimento dei legami con Cuba e soprattutto con l’impegno sulla questione dei cambiamenti climatici (che giustamente ritiene la più importante per la prossima generazione e non solo), ha dimostrato di essere un attivista in politica estera, e ha anche ottenuto degli importanti successi. Né Hillary Clinton né Donald Trump, i due principali candidati alla sua successione, sapranno fare di meglio.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

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