Il 12 luglio la Corte permanente di arbitrato dell’Aja emetterà il suo verdetto sulle rivendicazioni della Cina, che reclama il controllo di quasi tutto il mar Cinese meridionale. Intanto i principali paesi coinvolti nella disputa stanno già aumentando la loro presenza militare nella regione.
L’autorità per la sicurezza marittima della Cina ha annunciato che la marina e l’aviazione svolgeranno un’esercitazione di sette giorni in un’area che va da Hainan alle isole Paracelso, al largo delle coste vietnamite. Le manovre termineranno l’11 luglio, il giorno prima della sentenza, in modo che le forze coinvolte siano ancora nella zona se la situazione dovesse farsi più tesa.
E la situazione rischia davvero di farsi più tesa, visto che la Task force 70 della marina statunitense, inclusa la portaerei Ronald Reagan, sta già facendo rotta verso il mar Cinese meridionale. Il suo compito, secondo il suo comandante John D. Anderson, è di “assicurare che i mari restino aperti a tutti”.
La linea a nove tratti
Il portavoce del ministero della difesa cinese, il colonnello Wi Qian, ha definito questa mossa “una militarizzazione del mar Cinese meridionale che mette a rischio la pace e la stabilità della regione. Gli Stati Uniti stanno sbagliando i loro calcoli: le forze armate cinesi non arretreranno mai davanti agli stranieri”. Il presidente cinese Xi Jinping ha dichiarato che Pechino non accetterà alcun compromesso sulla sua sovranità e che “non teme le tensioni”.
Quindi potrebbero crearsi le condizioni per uno scontro militare tra Stati Uniti e Cina se il tribunale dell’Aja dovesse, come sembra probabile, pronunciarsi contro le rivendicazioni della Cina. Gli Stati Uniti temono che la Cina possa rispondere dichiarando una Zona d’identificazione per la difesa aerea (Adiz) su tutto il mar Cinese meridionale, come quella istituita nel mar Cinese orientale nel 2013 nell’ambito delle dispute territoriali con il Giappone.
Gli Stati Uniti e il Giappone hanno rifiutato di riconoscere l’Adiz e hanno ordinato ai loro aerei militari di violarla. La marina degli Stati Uniti risponderebbe allo stesso modo se la Cina dovesse istituire una simile Adiz nel mar Cinese meridionale. A febbraio la Cina ha attivato due batterie di missili antiaerei con una gittata di duecento chilometri sull’isola di Woody, nelle Paracelso.
Secondo le analisi più pessimistiche, potremmo trovarci a una settimana da un grosso scontro militare tra gli Stati Uniti e la Cina nel mar Cinese meridionale. Ma è probabile che le cose non precipiteranno a tal punto, perché la decisione del tribunale dell’Aja non avrà alcun effetto pratico.
La “linea a nove tratti” rivendicata dalla Cina, che copre circa il 90 per cento del mar Cinese meridionale, appare insensata se osservata su una mappa. Comincia a più di mille chilometri dal punto più meridionale della Cina ma si avvicina a meno di cento chilometri dalle coste filippine, malesi e vietnamite. Eppure è presa molto seriamente in Cina.
La Cina ha già dichiarato che non accetterà alcuna decisione del tribunale dell’Aja sulle sue rivendicazioni territoriali
Le giustificazioni storiche per la rivendicazione di Pechino sono fragili, ma a partire dalle isole Paracelso, sottratte con la forza al Vietnam nel 1974, la Cina ha esteso il suo controllo su buona parte delle isolette e degli atolli dell’intera area.
Negli ultimi tre anni ha ampliato sette isole con cemento e sabbia, costruendo piste d’atterraggio, moli e altre infrastrutture che possono essere usate a fini militari. A febbraio vi ha collocato per la prima volta delle armi. Che si trattasse o meno di una diretta conseguenza della denuncia presentata dalle Filippine all’Aja nel 2013, questa mossa ha aumentato le probabilità di uno scontro militare.
Distrazione di massa
Ma la Cina ha già dichiarato che non accetterà alcuna decisione sulle sue rivendicazioni territoriali da parte del tribunale dell’Aja, che è sostenuto dalle Nazioni Unite e non ha alcun modo di far rispettare la sua decisione. La Cina non dovrebbe quindi sentirsi in dovere di ricorrere alla forza militare per difendere le sue rivendicazioni, così come gli Stati Uniti non dovrebbero sentire il bisogno di fare lo stesso per opporsi. In teoria, almeno.
Dietro alla retorica belligerante di Pechino c’è una convinzione politica radicata, secondo cui la Cina dovrebbe evitare i conflitti militari con altre grandi potenze finché non avrà la forza economica sufficiente per avere buone possibilità di vittoria. Non siamo ancora a quel punto, e quindi è probabile che non ci sarà alcuno scontro militare.
Ma è possibile che adesso a Pechino stiano cominciando a fare altre considerazioni. Il contratto sociale che permette al Partito comunista cinese di restare al potere è semplice: finché riesce a garantire il miglioramento delle condizioni economiche, la popolazione accetterà il suo regime dittatoriale. Per quasi trent’anni ci è riuscito, con un tasso di crescita economica compreso tra l’8 e il 10 per cento annuo.
Oggi, però, il partito ammette che il tasso di crescita è sceso al 6 per cento, e quasi tutto il resto del mondo è convinto che sia in realtà intorno al 4 per cento. Alcuni ritengono che quest’anno l’economia potrebbe non crescere affatto. E se così fosse, per il partito potrebbero arrivare tempi difficili e ci sarebbe dunque bisogno di una distrazione in politica estera per distogliere l’attenzione dei cittadini dall’economia.
Un conflitto con gli Stati Uniti e i suoi alleati del sudest asiatico a proposito del mar Cinese meridionale, dai toni accesi ma tenuto sotto controllo, potrebbe essere la soluzione. Questo infiammerebbe le passioni nazionalistiche in Cina, rafforzando il sostegno al Partito comunista. Il problema è proprio mantenere il conflitto sotto controllo. Una volta che si prende una certa strada, è difficile sapere dove ti porterà.
(Traduzione di Federico Ferrone)
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