È un po’ come in una tragedia di Shakespeare, e più precisamente il finale di Amleto, quando quasi tutti i personaggi principali della tragedia muoiono di morte violenta. Ormai ne resta solo uno. Il suo nome è Theresa May.

Sono passate appena tre settimane da quando il Regno Unito (o perlomeno il 52 per cento di chi ha votato al referendum) ha deciso di uscire dall’Unione europea, ma quasi tutti i leader della campagna per la Brexit sono usciti di scena. Il Partito conservatore è sempre stato spietato, e chi minaccia di dividere il partito viene subito fatto fuori.

Il primo a cadere è stato il primo ministro David Cameron, che aveva indetto il referendum nella speranza che un risultato favorevole all’Unione europea avrebbe fatto tacere gli euroscettici dell’ala destra del partito. È stato un errore evitabile e fatale.

Cameron ha permesso ad alcuni dei suoi stessi ministri di fare campagna per l’uscita dall’Unione, nella convinzione che sarebbero tornati all’ovile, umiliati dalla sconfitta, quando il paese avrebbe votato per restare. E invece hanno vinto loro, e Cameron ha annunciato le sue dimissioni la mattina dopo il referendum.

Il premier ha comunque affermato che sarebbe rimasto in carica fino a ottobre, per dare al partito il tempo di scegliere il suo nuovo leader. Questo avrebbe implicato tre mesi di paralisi politica, ma avrebbe dato a Cameron il tempo di pianificare il suo futuro (pare che stia cercando di ottenere un posto di rilievo all’interno della Nato). E poi è cominciata la carneficina.

Quasi tutti pensavano che sarebbe stato uno dei conservatori euroscettici a sostituire Cameron, con Boris Johnson favorito. La sua presenza a capo della campagna per l’uscita dall’Unione ne ha probabilmente determinato la vittoria, ma evidentemente è rimasto scioccato di fronte alla prospettiva di dover davvero guidare il paese in terra ignota.

Dopo il referendum Johnson è sparito per quattro giorni, abbastanza per permettere all’altro capo della campagna per l’uscita, il ministro della giustizia Michael Gove, di pianificare un golpe contro di lui. Gove avrebbe dovuto guidare la campagna di Johnson, ma invece ha dichiarato che quest’ultimo non era all’altezza, annunciando che si sarebbe candidato in prima persona per la leadership del partito.

Johnson si è ritirato (probabilmente senza troppi rimpianti) e il tradimento di Gove è stato così sfacciato che i suoi colleghi di partito gli hanno voltato le spalle. Anche il fool shakespeariano Nigel Farage, leader del Partito per l’indipendenza del Regno Unito (Ukip), si è dimesso, dichiarando che rivoleva indietro la sua vita. In sole due settimane tutti i principali leader della campagna per l’uscita dall’Unione se ne sono andati, e Andrea Leadsom è rimasta l’unica euroscettica candidata alla leadership del partito.

Leadsom è un’ultraconservatrice che è entrata in parlamento solo nel 2010. Era un peso piuma che normalmente non avrebbe avuto alcuna possibilità di ambire alla carica di primo ministro, e le sue opinioni sono così estreme (matrimonio solo per i cristiani e non per gli omosessuali, ripristino della caccia alla volpe) che difficilmente avrebbe mai potuto vincere le elezioni.

Ma i parlamentari conservatori temevano che potesse comunque vincere la corsa alla leadership del partito, perché a decidere sono i 150mila iscritti: un gruppo di borghesi conservatori con un’età media di sessant’anni. Quindi la pressione perché Leadsom si facesse da parte si è fatta sempre più forte.

May ha promesso di condurre il Regno Unito fuori dall’Europa. Ma non significa che abbia idea di come fare

L’11 luglio Leadsom ha ceduto, lasciando così all’ultima donna rimasta in corsa, il ministro dell’interno Theresa May, la guida del partito e la carica di premier. Non ci saranno divisioni nel partito e la politica britannica eviterà uno stallo di tre mesi. May è considerata una persona affidabile ed entro pochi giorni assumerà l’incarico.

In parlamento May avrà le mani libere, perché il Partito laburista ha un nuovo leader radicale, Jeremy Corbyn, che è stato eletto un anno fa dai militanti di base ma è sostenuto da meno di un quinto dei deputati del partito. Corbyn è sempre stato ostile all’Unione, e la sua svogliata campagna a favore della permanenza ha contribuito al fatto che un terzo degli elettori laburisti abbiano votato per l’uscita.

Il risultato è che i parlamentari laburisti sono in rivolta contro Corbyn, e una figura di spicco del partito, Angela Eagle, sta cercando di ottenerne la guida. I laburisti saranno fuori gioco finché non avranno risolto le dispute interne, quindi May potrà governare senza opposizione per un po’.

May aveva sostenuto la permanenza nell’Unione, ma in modo molto discreto. Ora ha promesso di rispettare il volere degli elettori e di condurre il Regno Unito fuori dall’Europa. Ma questo non significa che abbia la benché minima idea di come farlo.

Come ha scritto il Guardian, “oggi appare terribilmente chiaro che non esiste un piano su come e quando il Regno Unito uscirà, nessun piano sui futuri rapporti con l’Europa e assolutamente nessun piano su come creare un consenso politico attorno alle imperfette opzioni politiche che verranno offerte”. La cosa vale sia per May sia per l’ormai defunta leadership euroscettica.

Ma guardiamo il lato positivo. Se Angela Merkel resterà al governo in Germania e Hillary Clinton vincerà le presidenziali statunitensi a novembre, entro la fine dell’anno i tre maggiori paesi occidentali saranno tutti guidati da donne. Forse loro riusciranno a risolvere tutto.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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