Già prima di dirottare il Partito repubblicano, Donald Trump dichiarava a gran voce che, come Barack Obama, la scienza del cambiamento climatico non è nata negli Stati Uniti. Nel 2012 insisteva nel dire che si tratta di uno scherzo cinese “creato da e per i cinesi con lo scopo di rendere poco competitivo il settore manifatturiero statunitense”.
Le implicazioni sono evidenti. Alla fine degli anni ottanta, quando per la prima volta il cambiamento climatico è stato riconosciuto come una minaccia, quegli infidi cinesi devono aver indotto o ricattato importanti leader e scienziati occidentali in modo che mettessero in atto questo inganno. Stiamo parlando di gente come lo scienziato della Nasa James Hanse, che ha pronunciato uno storico discorso al congresso sul riscaldamento globale nel 1988 e la prima ministra britannica Margaret Thatcher, che ne parlò alle Nazioni Unite nel 1989.
Altre persone, soprattutto nei settori del carbone, del petrolio e delle automobili, hanno per decenni negato la realtà del cambiamento climatico, ma solo The Donald ha capito che si trattava di un complotto cinese (in effetti ha un grande cervello, come sottolinea di continuo). All’epoca, i più saggi lo hanno demolito ritenendolo un brontolone innocuo, ma adesso di sicuro lo prendono sul serio.
Trump non potrà salvare l’industria del carbone statunitense, perché è diventato più economico bruciare gas naturale
Trump ha promesso che entro i primi cento giorni del suo mandato “cancellerà” l’accordo sul clima di Parigi siglato lo scorso dicembre e “bloccherà tutti i pagamenti fatti con soldi dei contribuenti americani ai programmi sul riscaldamento globale delle Nazioni Unite”. Rescinderà inoltre le azioni esecutive che il presidente Obama ha intrapreso per limitare le emissioni statunitensi di anidride carbonica, soprattutto nel settore dell’elettricità (questi provvedimenti in effetti avrebbero condotto alla chiusura di quasi tutte le centrali a carbone degli Stati Uniti).
In pratica, Trump non può cancellare l’accordo di Parigi, firmato da 195 paesi. Può ritirare gli Stati Uniti dal trattato (così come George W. Bush, un altro negatore del cambiamento climatico, ritirò gli Stati Uniti dal protocollo di Kyoto sul cambiamento climatico nel 2001), ma non può impedire ad altri paesi di procedere con i tagli concordati delle emissioni – cosa che potrebbero benissimo fare, perché capiscono quanto è pericolosa la situazione.
Calcoli economici
Di sicuro può cancellare i provvedimenti esecutivi del presidente Obama e incoraggiare gli statunitensi a bruciare tutti i combustibili fossili che vogliono. Anzi, ha già nominato Myron Ebell, di professione negatore del cambiamento climatico, alla carica di direttore dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente. La missione di Ebel è raderla al suolo, ed è quello che farà. Ma nemmeno Trump potrà salvare l’industria del carbone statunitense, perché molto semplicemente è diventato più economico bruciare gas naturale.
La presidenza Trump di certo rallenterà il declino delle emissioni statunitensi di gas serra, ma alcuni semplici dati economici suggeriscono che in realtà queste ultime non aumenteranno, anzi, potrebbero perfino diminuire. Le energie rinnovabili stanno diventando più economiche dei combustibili fossili in molti settori, e perfino Trump avrebbe difficoltà ad aumentare ulteriormente i grossi sussidi nascosti al petrolio e al carbone.
E allora quanto inciderà la defezione statunitense dall’accordo di Parigi, che ha come obiettivo di impedire alla temperatura globale media di aumentare di due gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali? Usciranno anche tutti gli altri, perché gli Stati Uniti non vogliono più fare la loro parte? E anche rimanessero, potranno sperare di restare al di sotto dei due gradi?
Gli Stati Uniti sono il secondo paese per emissioni di gas serra (dopo la Cina), responsabili di circa il 16 per cento delle emissioni globali. Con l’accordo di Parigi si impegnavano a tagliare questo volume di appena un quarto nei prossimi dieci anni, perciò stiamo parlando di circa il 4 per cento delle emissioni globali nel 2025 se gli Stati Uniti stracceranno l’accordo. In pratica questa percentuale potrebbe essere molto inferiore.
La variabile cinese
Non si tratta di un quantitativo cruciale, soprattutto se si tiene conto del fatto che tutte le promesse di tagli fatte a Parigi lo scorso dicembre non ci manterranno al di sotto dell’obiettivo dei due gradi da non superare. Ci porteranno molto più vicini, ma continueremmo ad andare verso i 2,7 gradi se tutti dovessero mantenere le loro promesse. Senza la cooperazione statunitense probabilmente andremo verso un aumento di 3 gradi, ma in entrambi i casi ci sarebbe ancora molto da fare.
L’assunto implicito a Parigi era che tutti sarebbero tornati a incontrarsi nel giro di pochi anni con impegni più consistenti rispetto ai tagli di emissioni, così alla fine avremmo tagliato il traguardo barcollando, appena in tempo. Si è sempre trattato di un assunto pericoloso, ma gli altri attori più importanti potrebbero semplicemente rifiutarsi di andare avanti se gli Stati Uniti non faranno la loro parte. Soprattutto la Cina, che è responsabile del 26 per cento delle emissioni globali.
La Cina però è terrorizzata dai previsti effetti locali del cambiamento climatico, e ha installato più centrali solari ed eoliche rispetto a qualsiasi altro paese al mondo. Trae già oggi il 20 per cento dell’energia usata da fonti rinnovabili, con l’obiettivo di aumentare la percentuale. I cinesi saranno infastiditi dal rifiuto dell’amministrazione Trump di fare la sua parte, ma non prenderanno decisioni controproducenti per loro.
Il mondo si è purtroppo abituato a questo aspetto dell’eccezione americana, e lo sforzo per evitare un disastro climatico proseguirà anche se zoppicando perfino durante il regno di Trump a Washington.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
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