Pietro Ingrao, il comunista che voleva la luna, ovvero un mondo di liberi ed eguali, ha aspettato un’eclissi di luna per andarsene da questo mondo che della libertà e dell’uguaglianza non cessa di fare strame. Una coincidenza senza rima, giusta per il poeta che amava l’ermetismo; un finale perfetto del film della vita, giusto per il cinéphile che studiava da regista prima che la guerra di Spagna lo scaraventasse in quel gorgo politico del novecento dal quale non sarebbe mai più uscito.

Ingrao aveva compiuto cento anni il 30 marzo scorso, e già in quel compleanno giornali e telegiornali, amici e nemici, avevano letto la sintesi del secolo scorso, e la sigla della sua fine. A me era parso piuttosto il segno di una sua sporgenza: come se la presenza di Pietro fosse lì a ricordarci che il secolo breve, dato per morto e sepolto nel 1989, si allunga oltre la sua durata e si sporge appunto sull’oggi, con tutto il ventaglio delle contraddizioni e dei problemi che l’89 non ha risolto bensì riannodato, come Ingrao stesso aveva lucidamente profetizzato nei mesi della caduta del muro di Berlino, della fine del mondo bipolare e dell’eutanasia del Partito comunista. E certo, ciò che è accaduto tra quel compleanno e oggi non fa che dare ragione a quella sua profezia (oggi riscontrabile nell’ultima raccolta di scritti ingraiani pubblicata da Ediesse con il titolo Coniugare al presente): dall’onda migratoria (“Che faremo quando arriverà”, si chiedeva Ingrao già negli anni novanta, “ci difenderemo con il razzismo?”), all’immobilismo dell’Europa e della sinistra europea che già allora lo tormentava, ai rigurgiti autoritari e xenofobici delle ex società sovietiche che già allora intravedeva.

Tutto questo riapre il giudizio, o almeno dovrebbe, sul supposto segno conservatore dell’ultima stagione di Ingrao, quella che comincia con l’opposizione alla svolta della Bolognina e prosegue con l’addio al Pds e l’avvicinamento al Prc prima, a Sel poi: una stagione che a dispetto della vulgata non fu affatto caratterizzata da una sua resistenza al cambiamento, bensì da un conflitto lungimirante sul segno da imprimere e sulle modalità con cui attuare una trasformazione di cui egli era il primo a sentire l’urgenza. È l’Ingrao forse più disconosciuto, ma anche quello che più è destinato a “incombere”, avrebbe detto il suo amico Cesare Luporini, sui nostri giorni presenti e futuri.

Meno controverso, ancorché tutt’altro che pacificamente acquisito, il lascito della sua precedente vicenda politica, racchiusa tra la rivolta antifascista e la fine dell’esperimento comunista, sintesi davvero emblematica del secolo “grande e terribile” cui Ingrao sentiva e rivendicava di appartenere in ogni nervatura e in ogni piega della propria esperienza politica, umana e culturale. La formazione giovanile sotto il fascismo, gli studi alla scuola sperimentale di cinema, l’irresistibile “spinta fisica ed emotiva” (ancora parole sue) alla libertà che lo trasformò nel partigiano Guido, la resistenza e la liberazione; la partecipazione al gruppo dirigente del Pci togliattiano, la direzione dell’Unità, il dissenso espresso all’XI congresso del 1966 con la scandalosa frase “Non sarei sincero se dicessi che sono stato persuaso”; i due errori decisivi, in seguito oggetto di ripetuta autocritica, del sì all’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956 e del sì all’espulsione del gruppo del manifesto nel 1969. E poi ancora, la presidenza della camera – prima volta di un comunista – fra il 1976 e il 1979 e quella del Centro studi per la riforma dello stato negli anni successivi, entrambe costellate dall’elaborazione ingraiana sulla democrazia, sul rapporto fra masse e potere (l’omonimo libro è del 1977) e fra istituzioni e legame sociale (a proposito: mai Ingrao avrebbe accettato che il superamento del bicameralismo perfetto, da lui stesso auspicato in tempi non sospetti, si realizzasse nella forma in cui sta per realizzarsi oggi). Cos’altro? L’impegno pacifista negli anni ottanta, la curiosità appassionata, rarissima in un dirigente comunista, per il femminismo, la diagnosi lucida (Appunti di fine secolo con Rossanda, 1995) dell’egemonia neoliberale installatasi in occidente dalla Trilateral in poi.

Sono i capitoli di una biografia politica che attende ancora di essere collocata, al di là dell’insistenza sull’ambivalenza di ortodossia ed eresia caratteristica del personaggio, all’interno della grande vicenda novecentesca che ha visto prima annodarsi, poi spezzarsi, il rapporto fra sviluppo capitalistico, crescita del movimento operaio e allargamento della democrazia. Una vicenda della quale viviamo oggi gli esiti deludenti e dolorosi, e sulla quale l’occhio dello storico avrà prima o poi ragione dei giudizi sommari della cronaca e dei poco probabili derby fra “vecchio” e “nuovo” che ottundono da più di due decenni il dibattito pubblico. A quell’occhio, la “pratica del dubbio” di Pietro Ingrao apparirà certamente molto più necessaria e lungimirante di quanto non sia apparsa a molti suoi contemporanei. E altrettanto certamente essa continuerà ad accompagnare chi ha avuto la fortuna di incontrarlo, seguirlo, volergli bene, nutrirsi della tessitura di ragione e affetti, durezza e tenerezza di cui sempre erano fatte le sue parole, che ha fatto l’unicità irripetibile di un maestro come Pietro e che rendeva unica e irripetibile la relazione del suo popolo ma anche quella singolare, politica e umana, con lui. Sì che in questa notte di eclissi lunare che accentua la sensazione di buio in cui sempre la fine di un maestro ci lascia, vorrei salutarlo con tre fotografie, fra il personale e il politico, prese dall’albo dei ricordi di alcuni momenti condivisi.

La prima foto è scattata a Lenola, nella sua casa, nel 1979. È estate e Maria Luisa Boccia, sua nipote prediletta e mia amica adorata, mi ha invitata lì per il fine settimana. C’è anche Pietro, all’epoca presidente della camera, è la prima volta che lo incontro di persona, ne ho soggezione e gli do del lei non foss’altro che per la sua carica istituzionale, ma lui mi rimprovera e si rabbuia contrariato: non ci si dava del tu, fra compagni? Già, ci si dava del tu. Passeranno dieci anni prima che al centralino di Botteghe Oscure, all’indomani della svolta, il lei diventi all’improvviso la nuova norma, segno inequivocabile del cambio di stagione.

Seconda foto, nella redazione del manifesto, 1993. Ingrao ha appena lasciato il Pds, ed è convinto che non possa esserci nessuna prospettiva e nessuna ripartenza senza rimettere al mondo una comunità di intenti attraverso l’analisi culturale del cambiamento in corso; da questa convinzione nascerà un settimanale di approfondimento, Il Cerchio quadrato, in cui, a trent’anni dalla radiazione del gruppo del manifesto dal Pci, Ingrao e gli ingraiani “eretici” si ritrovano assieme, con l’aggiunta di alcuni cosiddetti giovani, tra cui la sottoscritta, non direttamente coinvolti nei conflitti e nelle ferite della sinistra Pci. È stato lì che ho visto all’opera il metodo di Ingrao: una miscela potente di pensieri larghi e di attenzione puntigliosa al dettaglio quotidiano, che smentiva eclatantemente i suoi ritratti di utopista “acchiappanuvole”, astratto e rarefatto. Risalgono a quell’epoca alcune interviste che ho avuto la fortuna – e la pazienza: un’intervista era in realtà un impegnativo confronto e non durava mai meno di un paio di giorni – di strappargli. Una in particolare mi parve e tuttora mi pare preziosa, si intitolava “La lingua perduta della politica” e ragionava del rapporto fra politica e comunicazione, rappresentanza e rappresentazione, con una pregnanza insuperata nei successivi vent’anni di disquisizioni politologiche e massmediologiche in materia.

Terzo scatto, all’Auditorium di Roma, novantesimo compleanno di Ingrao: al Centro per la riforma dello stato avevamo deciso di festeggiarlo pubblicamente, da allora in poi, tutti gli anni. Non ricordo se fu quella volta o l’anno dopo che lui, per dribblare il traffico, si fece accompagnare in motorino, però ricordo parola per parola quello che disse alle tremila persone sedute in sala. Cominciò dalla forza trascinante della politica, ma solo per metterne a fuoco il limite e l’eccedenza, quello che dalla politica resta fuori ma senza cui la politica non è nulla, diventa piccola e vuota, sorda e muta. Quel limite, disse, non è altro che l’umano: l’umano differente e irriducibile, “lo smisurato che non si lascia misurare e che eccede l’essere sociale”, “l’indicibile di noi stessi e della relazione con l’altro che non possiamo mai afferrare fino in fondo”: e che ne sarà della politica, se dell’umano tutto diventa misurabile, spendibile, mercificato, mediatizzato? La domanda sulla soggettività che si è aperta all’inizio del secolo con Freud e Joyce e che ha fatto grande la politica novecentesca, aggiunse Ingrao, non deve chiudersi con la fine del novecento. “Ecco la mia paura, che mi venga tolto non tanto il pane, e nemmeno la Costituzione, ma questa idea dell’umano che ho imparato in questo secolo. Vi prego, non permettete che questa domanda venga cancellata”. Non lo permetteremo, Pietro.

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