Un parlamento delegittimato dal pronunciamento della corte costituzionale sulla legge elettorale dalla quale è nato, un parlamento non rappresentativo degli attuali rapporti politici, ignorante e presuntuoso quant’altri mai e uso a comunicare attraverso la volgarità delle parole e dei gesti, ha approvato la più sgrammaticata, sgangherata e regressiva riforma costituzionale che sia mai stata concepita nei vari tentativi che si sono susseguiti dagli anni ottanta in poi. L’ha fatto nel disprezzo dichiarato delle competenze – i “professoroni” dileggiati dalla ministra Boschi – che via via ne hanno denunciato i difetti. L’ha fatto in un rapporto meramente competitivo con le generazioni precedenti, all’insegna del “noi riusciremo in tutto ciò in cui voi non siete riusciti”, l’insegna più significativa dei rottamatori al potere. L’ha fatto spacciando per riforma del senato quella che è in realtà una riscrittura di tutta la seconda parte della costituzione e uno stravolgimento della forma di governo e dell’equilibrio tra legislativo ed esecutivo, motivato con le magnifiche sorti di una “democrazia decidente” contrapposta alla democrazia rappresentativa (a sua volta fatta uguale a una supposta “democrazia consociativa” che avrebbe caratterizzato l’intero passato repubblicano). L’ha fatto su iniziativa e per conto del governo, che ha scandalosamente avocato a sé una materia parlamentare per eccellenza come quella costituzionale. L’ha fatto, infine, con la complicità di una sedicente opposizione interna al principale partito di governo, il Partito democratico, che ha preferito siglare un farraginoso compromesso su un singolo punto della riforma – il metodo di elezione dei senatori – piuttosto che mettersi di traverso alla sua intera filosofia.
Sulla quale bisognerà essere molto chiari almeno da qui al referendum al quale la riforma sarà comunque sottoposta. In questione non è solo il bicameralismo, che da perfetto diventa imperfetto – ma non per questo semplificherà l’iter di approvazione delle leggi, vista l’immensa confusione che vi introduce. In questione non è nemmeno la riduzione – anzi “l’asfaltamento”, come promise Matteo Renzi neoeletto presidente del consiglio, mani in tasca, nella sua prima performance a palazzo Madama – del ceto politico, visto che il numero complessivo dei parlamentari resta il più alto d’Europa. In questione non è infine, checché ne dica Giorgio Napolitano, il completamento di un disegno federalista dello stato, visto che il senato delle regioni si realizza nel momento di massima corruzione del regionalismo e di massima crisi delle forze politiche che del federalismo avevano fatto, nel ventennio scorso, la loro bandiera.
Come in tutto quello che va facendo, l’innovatore Renzi non apre un’epoca radiosa ma chiude un ciclo grigio
In questione, grazie al combinato disposto tra questa riforma costituzionale e l’Italicum, è l’istituzione, per giunta non dichiarata e dunque non discussa come tale né in parlamento né nel paese, di un premierato assoluto, senza contrappesi e senza controlli, che affida le sorti del governo e della democrazia all’arbitrio di una minoranza. Basta un quarto dei voti del corpo elettorale per incassare il premio di maggioranza, insediarsi al governo e decidere su tutto – non solo sulla materia delle leggi ordinarie, ma sui diritti fondamentali, le eventuali ulteriori revisioni costituzionali, lo stato di guerra eccetera – con il conforto di una camera di nominati e senza strumenti istituzionali di freno o di contrasto. Non si tratta dunque di un semplice rafforzamento del governo, ma di una rottura dell’equilibrio dei poteri e dei dispositivi di garanzia che nel ridisegnare la seconda parte della costituzione mette a rischio anche la prima – a conferma che prima e seconda parte sono intimamente connesse, come il costituzionalismo insegna.
Voltare pagina davvero
Ha ragione chi sostiene, nell’esigua minoranza contraria a questa controriforma, che siamo così arrivati all’approdo di una vicenda trentennale – cominciò con Craxi – in cui la riforma della costituzione è stata brandita per coprire con la presunta inadeguatezza delle istituzioni il progressivo deficit di stoffa e di capacità politica della classe dirigente e dei partiti: è il ben noto trucco in base al quale più si è impotenti più si attribuisce la propria impotenza a un vincolo esterno, invocandone lo scioglimento. È altresì vero che nel corso di questa vicenda molti sono stati gli errori ripetuti, per primo quello di cambiare la carta costituzionale secondo la convenienza della maggioranza di turno, di sinistra – la riforma del titolo V voluta dall’Ulivo nel 2001 – e di destra – la riforma della costituzione varata dal governo Berlusconi e sepolta dal referendum nel 2006.
Di questa lunga vicenda vanno, tuttavia, sottolineate anche alcune discontinuità. La bozza di riforma varata dalla bicamerale nel 1998, alla quale l’opinione corrente a sinistra attribuisce la colpa di avere dato la stura alla “svendita” e alla delegittimazione della carta del 1948, non solo brillava al confronto di quella che rischia oggi di diventare effettiva, ma rispondeva all’esigenza di contenere la spinta violenta alla decostituzionalizzazione di cui la “nuova destra” del 1994 era portatrice, e che minacciava di scatenare convocando un’assemblea costituente in cui sarebbe stata con ogni probabilità maggioranza. Le cose oggi appaiono tragicomicamente invertite. Per paradosso, quella spinta alla decostituzionalizzazione si realizza nel momento in cui quella destra è storicamente sconfitta; e a farla propria è un partito nato nell’alveo del centrosinistra e trasformatosi in partito della nazione per portare a compimento la controrivoluzione neoliberale in Italia. Come in tutto quello che va facendo, l’innovatore Renzi non apre un’epoca radiosa ma chiude un ciclo grigio. Forse spetterà alla sinistra del futuro, se e quando nascerà, convocare una nuova assemblea costituente, se e quando sarà il momento di dichiarare finita questa controrivoluzione e di voltare pagina davvero.
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