Un branco di maschi è un branco di maschi. A qualunque latitudine e di qualunque colore (anzi: “colore presunto”) essi siano. Con rara onestà intellettuale e morale, l’ha ricordato ieri su Repubblica Gabriele Romagnoli, a partire dalla sua propria esperienza di studente universitario bolognese, nonché di “maschio sessualmente arretrato”, che quarant’anni fa partecipava, o assisteva, ai riti goliardici di carnevale che ogni anno contemplavano caccia, molestie e palpeggiamento delle ragazze. E lo si potrebbe ricordare con svariati altri esempi presi dal mondo occidentale, bianco e libero, dove stupri di gruppo, molestie di varia natura, femminicidi di varia efferatezza non smettono di accadere. Oppure con altri esempi tratti dal circuito militare, occidentale e orientale, settentrionale e meridionale, dato che sempre nelle guerre, e in qualunque guerra, le donne continuano a essere la preda succulenta che gli eserciti di maschi si contendono, o il marchio etnico che cercano di conquistare, o la presunta altrui proprietà che cercano di rapinare.
Lo si ricorda per sminuire i fatti di Colonia, Francoforte, Amburgo, Düsseldorf e Stoccarda? No. I fatti della notte di capodanno non vanno sminuiti: sono fatti brutti, e, se fossero come si sospetta l’effetto di un’azione coordinata di bande di maschi “nordafricani” – ma attenzione, basta interpellare delle amiche che abitano in quelle città per sapere che la notte di capodanno l’aria che tira è sempre la stessa –, sono fatti inquietanti. Segnalano che la provocazione dei maschi islamici contro i maschi occidentali tramite l’aggressione delle “loro” donne entra ufficialmente, dichiaratamente, a far parte delle tattiche della guerra civile globale in corso. E questa è certamente una pessima notizia, che non va derubricata.
Ma che non va nemmeno distorta, o piegata ad altri fini, l’altro fine essendo il titillamento dell’ideologia dello “scontro di civiltà” cui si presta egregiamente: che è precisamente quello che gli islamisti radicali cercano di fomentare e dovrebbe essere precisamente la trappola in cui evitare di cadere. Intendiamoci, c’è pochissimo di nuovo sotto il sole. È dall’indomani dell’11 settembre americano che tutto l’occidente suona la grancassa dell’oppressione femminile come marchio d’inferiorità della cultura islamica, e della liberazione delle donne dal patriarcato islamico come legittimazione per le guerre occidentali di “democratizzazione” del Medio Oriente. Non per caso, questa grancassa suona soprattutto nel fronte conservatore americano ed europeo, che è tanto pronto a difendere la libertà femminile delle donne contro l’aggressione degli “altri” maschi quanto è pronto a tacitarla, all’occorrenza, in casa propria: che dire dell’allarme per i fatti di Colonia di un commentatore come Sallusti, che ai tempi del Berlusconi-gate non aveva mezzo dubbio sulla libertà maschile di comprarsi il corpo femminile? Oppure che dire delle certezze del Corriere della Sera, che dagli attentati di Parigi porta avanti una strenua battaglia a difesa dello “stile di vita” occidentale assimilando la libertà femminile alla libertà di andare a teatro o a prendersi un aperitivo al bar? Difese sospette, cui consegue sempre l’ingiunzione alla sinistra, o a ciò che ne resta, a non sacrificare i diritti delle donne alla bandiera del multiculturalismo.
Ma qui non è questione di multiculturalismo, se per multiculturalismo si intende il rovescio dello scontro di civiltà, ovvero l’accettazione acritica di una cultura diversa dalla propria e la giustificazione delle sue gerarchie e sopraffazioni interne, a partire dalla gerarchia uomo/donna e dalla sopraffazione delle donne da parte degli uomini. I branchi di maschi che assalgono donne non sono giustificabili in nome di niente, né nella cultura islamica né nella cultura occidentale, né fra gli immigrati di Colonia né nei campus americani o nelle scuole “bianche” italiane. Assumere davvero lo stato dei rapporti fra i sessi e la libertà femminile come indici dello stato di una civiltà – o meglio, della crisi di civiltà in cui il mondo intero si trova – significa affrontare le contraddizioni comuni e trasversali alle civiltà che vengono rappresentate come contrapposte e in lotta fra loro. Significa combattere la brutalità del patriarcato islamico come i residui, o i rigurgiti, patriarcali nelle democrazie occidentali. E viceversa: significa anche e forse oggi soprattutto riconoscere i segni positivi di libertà femminile non solo nelle democrazie occidentali, ma anche nei paesi più patriarcali dei nostri. Solo pochi giorni fa Shirin Neshat, un’artista che in materia di rapporti tra i sessi nel mondo islamico non ha uguali e non teme confronti, in un’intervista sul Manifesto interpretava l’efferatezza contro le donne nel radicalismo islamico come il segno non tanto di una permanente oppressione femminile, quanto di una inquietante arretratezza e reattività della cultura politica di fronte a una libertà femminile sempre più diffusa.
È una sindrome che in occidente conosciamo bene: il patriarcato diventa più aggressivo proprio quando scricchiola. Se cominciassimo a leggere il disordine mondiale nei termini di una crisi planetaria del patriarcato, e non nei termini autorassicuranti di un Eden occidentale della libertà femminile in guerra contro l’inferno patriarcale islamico, probabilmente cominceremmo finalmente a fare un po’ d’ordine, a capodanno e tutti i giorni.
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