Lo sguardo lungo della storia e degli storici renderà prima o poi più giustizia alla presidenza di Barack Obama di quanta ne abbia ricevuta fin qui dalla cronaca e dai contemporanei. Ed è alla storia più che alla cronaca che Obama guarda nel suo ultimo discorso sullo stato dell’unione, tutto volto a lasciare dietro di sé – in contrasto con l’aggressività rancorosa di Donald Trump – una scia di speranza e di fiducia in un presente-futuro tanto carico di incognite quanto ricco di promesse. Niente di più riduttivo, tuttavia, che vedere in questa scia solo un appello all’ottimismo, magari traendone ispirazione per perseverare, qui in Italia, con la retorica governativa della nave che va malgrado gufi e jettatori. Nel testamento che il primo presidente nero degli Stati Uniti consegna al suo paese e al mondo c’è tutt’intera la rotazione che egli ha imposto, o proposto, al discorso pubblico occidentale durante il suo doppio mandato. Una rotazione che, se sette anni fa convocava un’America devastata dalla reazione neoliberista e neocon al trauma dell’11 settembre, oggi convoca con altrettanta forza, o dovrebbe, un’Europa che, sotto i colpi del terrorismo, dell’immigrazione, della crisi economica, si disfa e si immerge nella stessa retorica dello scontro di civiltà già sperimentata e consumata sull’altra sponda dell’Atlantico.
Per Obama il punto da ribadire è ancora come gli Stati Uniti ‘possano essere una guida per il mondo, senza diventarne il gendarme’
Dunque non è per caso se tra riforme rivendicate e compiti da portare a termine, tra un richiamo all’America di sempre e un’esortazione all’America che verrà, Obama affronta di petto il punto che nemici e amici, negli Stati Uniti e in Europa, gli rimproverano: il declino della potenza americana e della sua forza ordinatrice sulla scena internazionale, un declino di cui Obama stesso sarebbe complice se non responsabile. Strano rimprovero, in verità. Non era precisamente questo – la gestione della fine dell’unilateralismo americano – uno dei pilastri dichiarati del suo programma originario? Non si trattava di accompagnare un ridimensionamento non solo dell’impegno militare, ma anche della retorica e della hybris della più grande potenza del mondo? Eppure è proprio questo che non gli viene perdonato, quasi fosse un lutto insostenibile per gran parte dell’opinione pubblica americana e mondiale.
Archiviare lo scontro di civiltà
Perciò per Obama il punto da ribadire è ancora quello: come gli Stati Uniti “possano essere una guida per il mondo, senza diventarne il gendarme”. Tra le due condizioni, quella della guida e quella del gendarme, c’è di mezzo la rotazione di cui sopra sull’interpretazione del presente. Un tempo “carico di pericoli”, eppure occasione di un cambiamento decisivo di prospettiva. Perché su una cosa non ci piove: gli Stati Uniti restano “la nazione più potente sulla terra. Punto”. Ma non può continuare a esercitare questa potenza lanciando bombe sui civili, o ricostruendo paesi distrutti: “Questa non è leadership, è la ricetta per finire nel pantano, come insegnano il Vietnam e l’Iraq”. C’è un altro approccio possibile, multilaterale e globale, l’approccio che Obama rivendica su questioni non solo geostrategiche (Iran, Cuba, Siria, il mutamento epocale in corso in Medio Oriente, l’espansione cinese e le nuove ambizioni russe), ma anche biopolitiche (la lotta contro il cancro, l’aids, l’ebola, il cambiamento climatico, l’investimento nella ricerca e nelle tecnologie), su una scala di priorità che comporta non la sottovalutazione ma il dimensionamento del terrorismo internazionale: fanatismo criminale da estirpare anche con l’uso della forza, ma non religione, o civiltà, cui contrapporre politiche identitarie basate sulla razza o sul culto. Lo scontro di civiltà è da archiviare, “non in nome del politicamente corretto ma della pluralità e dell’apertura che fanno la forza e la diversità dell’America”. Piuttosto che rimpiangere il gendarme del mondo, l’Europa dovrebbe drizzare le orecchie.
Dalla crisi della democrazia non c’è modo di uscire se non riattivando la democrazia
Non solo su questo, del resto. Non si è ancora sentita, nel vecchio continente ostinatamente attaccato alla precettistica ordoliberale, la voce di un leader in grado di nominare uno per uno e senza infingimenti gli effetti devastanti di una crisi che la sua politica economica pure ha avuto l’indubbio merito di contenere: disuguaglianze, concentrazione della ricchezza, precarizzazione del lavoro e della vita. Obama può ben rivendicare che negli Stati Uniti il peggio è alle spalle, l’economia ha ripreso a girare ed è salda, la disoccupazione è scesa ai minimi storici e il lavoro si moltiplica. Ma sa e dice chiaro che perché “la nuova economia” crei più che distruggere sono necessarie scelte politiche di parte: creazione di nuovi posti di lavoro contro la delocalizzazione, investimenti – non bonus – nella scuola e nell’università pubblica, nuovi sistemi di formazione e tutela per chi è costretto a passare da un lavoro all’altro, aumenti dei salari a scapito dei profitti (“non è colpa degli immigrati se i salari sono fermi”). In politica economica come in politica estera l’ottimismo di Obama, malgrado i ripetuti appelli all’unità del suo popolo e dei suoi rappresentanti, è un ottimismo che sceglie, divide, taglia: non è una retorica comunicativa, è una scommessa politica che sfida le ambivalenze e le contraddizioni di un presente a rischio.
La questione è politica
Così pure, infine, sulla concezione della democrazia e della politica. A Washington il vento del disincanto, del rancore di tutti contro tutti e della degenerazione del conflitto politico soffia non meno che a Roma o a Bruxelles, ma dalla crisi della democrazia non c’è modo di uscire se non riattivando la democrazia: “Non basta cambiare un deputato o un senatore e nemmeno un presidente: dipende da voi, dalla vostra capacità di essere cittadini non solo il giorno delle elezioni, di esigere diritti e prendere parola dalla parte dei più vulnerabili”. Dipende dalle voci tacitate in una sfera pubblica che ascolta solo chi sa gridare di più, dai Trump ai Salvini di turno. “Le voci della verità disarmata e dell’amore incondizionato” in cui confidava Martin Luther King. Se quelle voci sono riuscite o riusciranno a farsi sentire, se l’America è riuscita nella sua storia o riuscirà nel prossimo futuro a rispondere alle sfide del cambiamento “senza aderire ai dogmi di un tranquillo passato” ma spostando la frontiera sempre in avanti, non è stato e non sarà grazie a una dote antropologica, né, si potrebbe aggiungere, a uno scongiuro ripetuto ogni sera in tv. È stato e sarà “grazie alle scelte che facciamo insieme”.
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