Trecentoquarantasei voti su 550 approvano nel parlamento turco lo stato d’emergenza, mentre Erdoğan non cessa di appellarsi al popolo perché resti in piazza a presidiare quella che lui chiama democrazia. Cinquantottomila statali licenziati; televisioni e giornali azzittiti; giornalisti arrestati o privati del permesso di lavorare; generali, giudici, professori epurati e incarcerati. Corpi di uomini nudi ammanettati e ammassati, corpi di donne che già si coprono “spontaneamente” prima che il velo diventi un obbligo ufficiale. Sospesa la Convenzione europea dei diritti umani, il che vuol dire – in base all’articolo 15 della Convenzione stessa, che prevede la possibilità di sospensione in caso di minaccia alla vita della nazione – deroga all’equo processo, alla libertà religiosa, alla libertà di associazione e ad altri diritti; ma può anche voler dire – contro i limiti posti alla possibilità di sospensione dalla Convenzione stessa – deroga al divieto di tortura, di schiavitù, di condanna ai lavori forzati. Sospese anche alcune prerogative del parlamento, via libera alla legiferazione per decreto. Quali altri fuochi d’artificio bisogna aspettarsi dalla “vendetta” di Erdogan contro il (presunto, e comunque fallito) tentativo di colpo di stato ai suoi danni perché l’Unione europea lo metta al bando senza se e senza ma, stracci il funesto contratto sui migranti stipulato con lui pochi mesi fa, cancelli i patti commerciali con il suo paese?

L’imbarazzante sordina della Ue nei confronti di Erdoğan ha una radice nel paradosso democratico che sta sfigurando la democrazia

Ma l’Unione europea tace. E alcuni dei suoi membri – solo alcuni – sussurrano, come pure gli Stati Uniti. Chiamano Erdoğan al telefono e gli chiedono felpatamente se per cortesia non potrebbe portare un po’ di rispetto allo stato di diritto, in cambio del fatto che l’occidente unito, Ue e Usa, ha condannato il tentato golpe e difeso in lui “un capo di governo democraticamente eletto”. Ed eccoci al punto. Che cos’è oggi un capo di governo democraticamente eletto, e che cosa lo distingue da un capo autoritario che alimenta con l’appello al popolo le proprie pretese di onnipotenza? È una domanda che non riguarda solo la Turchia. Quando Erdoğan si rivolge al “suo” popolo perché non solo approvi, ma supporti attivamente le sue decisioni in merito a stato d’emergenza, sospensione dei diritti, epurazione e repressione ci mette di fronte in modo estremo a un paradosso che in modo meno estremo riguarda tutte quelle democrazie contemporanee in cui un leader a vocazione populistico-plebiscitaria invoca, e sovente ottiene, l’approvazione e il sostegno democratico a favore di misure restrittive della democrazia: tanto per non fare nomi, dagli Stati Uniti di Trump alla Francia emergenziale di Hollande all’Italia del referendum sulla riforma costituzionale.

Casi assai diversi, lo so bene, e imparagonabili sotto altri e decisivi punti di vista. Ma accomunati dalla stessa, nefasta tendenza che mette in contraddizione i due principi cardinali della democrazia che dovrebbero invece sostenersi a vicenda: il principio della legittimazione popolare e il principio di legalità, o in altri termini il consenso elettorale e il rispetto dello stato di diritto e dei suoi vincoli (compresi i vincoli alla revisione costituzionale all’interno, e i vincoli posti dal rispetto del diritto internazionale all’esterno). Le democrazie costituzionali novecentesche nascono sull’equilibrio fra legittimazione e legalità, e si vanno sfigurando a causa dello squilibrio che non da oggi valorizza la legittimazione a scapito della legalità. La radice del populismo, che tutti sono pronti a deprecare quando nasce dal basso e pochissimi a condannare quando è agìto dall’alto, sta precisamente in questo squilibrio. Che in Turchia e non solo in Turchia autorizza un capo “democraticamente eletto” a fare strame della democrazia.

L’imbarazzante sordina della Ue nei confronti dei misfatti di Erdoğan ha certamente anche altre cause, recenti e remote. Dalla delega alla difesa della frontiera orientale dall’”invasione” dei rifugiati che l’Europa gli ha conferito con lo sciagurato patto sui migranti alla politica opportunista adottata da decenni dall’occidente nei confronti di dittatori di ogni risma – Saddam “usato” per fare la guerra all’Iran, Al Sisi per fare la guerra all’Is, Erdoğan per fare la guerra ad Assad e via dicendo – e che da decenni si ritorce regolarmente contro l’occidente.

Ma ha una radice anche nel paradosso democratico che ovunque sta sfigurando la democrazia. Di fronte a quello che accade a Istanbul non è possibile distrarre lo sguardo, né chiudere un occhio, né pararsi sotto l’ombrello di un processo di islamizzazione che, tanto per cambiare, marcherebbe una netta distanza “di civiltà” fra “noi” e “loro”. Come in un gioco di specchi deformante, ci riguarda e parla anche di noi.

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