Com’è brutta l’America che spunta dal discorso d’insediamento del suo quarantacinquesimo presidente. Triste, chiusa quasi si sentisse sotto assedio, sola quasi non avesse amici ma solo nemici che le rubano soldi e posti di lavoro, povera quasi fosse ancora nel pieno della crisi che nel 2008 chiudeva a grappolo le saracinesche dei negozi di Downtown a New York e riempiva le strade di Los Angeles di ex manager diventati homeless, paranoica quasi fosse davvero in mano a bande di drogati e criminali, arrugginita quasi che le fabbriche della Rust belt l’avessero inghiottita. “Questo carnaio adesso finisce”, sintetizza e annuncia Trump, e pare di assistere a un sogno: è la sua immagine dell’America che, proiettata sullo schermo dell’Inauguration day, si spaccia per realtà. E purtroppo, da oggi, diventa realtà.
Com’è sgraziato il commiato del nuovo presidente dalla coppia presidenziale che lascia la Casa Bianca: sì, sono stati “straordinari” nel passaggio delle consegne, grazie Barack, grazie Michelle, ma di chi sarà mai la colpa di quell’indecente carnaio se non loro? Trump non lo dice, ma lo sottintende, è il suo ultimo spruzzo di veleno contro il presidente nero e abusivo che finalmente toglie il disturbo. Tutto il resto, invece, non è sottinteso. Nessun distinguo, nessun se e nessun ma: Washington è marcia, l’élite che l’ha occupata finora ha goduto a spese del popolo, da oggi tutto cambia perché in verità questo non è un normale passaggio di consegne da un’amministrazione a un’altra ma una rivoluzione, il passaggio del potere dall’establishment al popolo. A “voi”, che siete il popolo. Quale sottile slittamento, dal “we the people” della costituzione, e dallo “yes we can” di Obama, a questo “voi, il popolo”. È il grande imbroglio del populismo di governo: chi l’ha detto che l’Italia non è più un laboratorio politico d’avanguardia? Lo è ancora, purtroppo; esporta poche merci, ma parecchie trovate politiche.
Com’è composto Obama, tirato eppure sereno, mentre arriva con al fianco Biden, “la mia prima decisione e la migliore”, e poi mentre saluta e ringrazia per l’ultima volta con a fianco Michelle, e com’è accigliato Trump mentre promette l’isolamento dell’America dal mondo. Com’è altera Michelle, com’è solare il ricordo del suo vestito color oro di otto anni fa al confronto del rosso cupo di oggi, e come sembra fuori tempo la bellezza celestiale di Melania al confronto del suo black style che aveva rivoluzionato le copertine dei femminili: un salto estetico che dice il salto d’epoca, all’indietro.
Com’è strana la scena di Washington divisa in due, la parata da una parte e i black bloc dall’altra, che manda all’aria il rito della tranquilla democrazia dell’alternanza e mostra un paese lacerato e incredulo, con una parte che in quel rito non trova riconoscimento e promette rifiuto e resistenza, fuck Trump e il suo minuetto melenso davanti a Hillary che s’è presentata di nuovo di bianco vestita, perché il bianco è il colore delle suffragette e la marcia delle donne mostrerà al presidente qual è il limite che non può oltrepassare.
Com’è fragile l’America first che Trump ci prospetta, l’America che si immagina great again come se davvero fosse diventata piccola, l’America che molla gli alleati perché sono cattivi pagatori, l’America che proteggerà i suoi prodotti dalla valuta altrui e i suoi confini dalle “disfatte” altrui, l’America che smette di sognare e si dà “due semplici regole, compra americano, assumi americano”, l’America che “si farà guidare solo dall’orgoglio nazionale” e che finalmente chiama il nemico col nome che Obama non ha mai voluto concedere, “terrorismo islamico radicale”, l’America che “non dovrà temere nulla” perché basterà a se stessa. Dio benedica l’America, e che stavolta la benedica davvero.
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