Francesca Bellino è una mia cara amica. Giornalista e scrittrice con una ossessione in testa che si chiama Tunisia. Non solo la sua famiglia è in parte tunisina (il marito è l’attore Ahmed Hafiene noto in Italia per aver fatto numerosi ruoli tra cui Hassan in La giusta distanza di Carlo Mazzacurati), ma da tempo lo è anche la sua anima. Di recente ha scritto un romanzo, Sul corno del rinoceronte, che ripercorre attraverso la storia di un’amicizia i momenti turbolenti che anticipano la rivoluzione dei gelsomini, l’inizio delle rivolte arabe. Mi ha sempre colpito una frase del romanzo di Francesca. Lei scrive: “I segreti sono nascosti negli occhi. Il mio primo incontro con la Tunisia sono stati gli occhi di Meriem. Poi mi sono imbattuta in quelli dei giovani in trappola, arresi ai bordi delle strade o persi davanti a squallide tazzine di caffè”.

In poche righe Francesca Bellino ha fatto una fotografia precisa di quanta frustrazione circolava e circola ancora tra i giovani, soprattutto uomini, tunisini.

Me li ricordo pure io quegli occhi. Tanti anni fa ho seguito un corso di arabo all’istituto Bourguiba di Tunisi. Eravamo una multiforme umanità. Tutti lì per un interesse diverso. Chi adorava il poeta Nizar Qabbani, chi voleva imparare una lingua con cui lavorare nel settore del petrolio, altri invece sognavano di tradurre manoscritti medievali. Io non so bene perché fossi lì, forse per non darla vinta a una lingua che mi faceva impazzire con i suoi plurali fratti e le sue coniugazioni. E poi c’erano loro, le signore eleganti. Alcune erano italiane, altre tedesche, altre ancora francesi.

I sogni mangiati
Lo studio dell’arabo era una scusa, quello che dicevano a casa ai mariti per giustificare il viaggio. In realtà più che alla lingua araba erano interessate agli arabi. Ed ecco che di colpo quei giovani senza lavoro, senza futuro, si attaccavano a queste signore occidentali per un regalo o per una cena in qualche ristorante di lusso. Le signore elargivano generosamente in cambio di qualche prestazione sessuale e di qualche galanteria. Era un commercio alla luce del sole che mi aveva lasciato senza fiato.

Ero ingenua forse, ma non me lo aspettavo proprio.

E cominciai a osservare quei giovani. Avevano tutti qualche sogno, qualche voglia di futuro, ma allora c’era Ben Ali, il dittatore, quello che Francesca Bellino chiama il rinoceronte, a mangiare i sogni. E oggi? La situazione non è migliorata. I ragazzi sognano ancora di fuggire, di lasciarsi questo paese alle spalle. Un paese, va detto, tra i più battaglieri e laici del Nordafrica. Un paese però che è abbandonato dalla comunità internazionale, che lo considera una pedina poco importante. Ed ecco che le grinfie del fondamentalismo e del terrorismo si sono fatte sentire con brutalità. La Tunisia è stata colpita duramente dal terrorismo, pensiamo solo agli attentati al museo del Bardo e a quello sulla spiaggia di Sousse, e oggi ha alti tassi di radicalizzazione tra i giovani.

I giovani, i loro occhi.

Ho cercato di guardare quelli di Anis Amri, il terrorista del mercatino di Natale di Breitscheidplatz, a Berlino.

Gli occhi rivelati dalle fotografie sono opachi, velati, manca la luce. All’Ucciardone, una delle strutture carcerarie dove è stato recluso, Anis Amri è stato descritto come violento.

Riguardo le foto segnaletiche che sono state pubblicate dai giornali.

Oggi non c’è una maniera legale di arrivare in Europa. Ci sono solo i trafficanti

Questa storia ci riguarda, penso.

Ci riguarda come Italia.

Parla di noi.

Anis Amri non ha una faccia poi così diversa dai ragazzi di Messina, Palermo, Enna, Catania.

Come ogni giovane, anche lui forse ha sognato per se stesso un futuro migliore, chissà.

Cerco di guardare l’uomo dietro al terrorista. Non è facile. Soprattutto non è facile se penso a chi ha perso la vita in quel mercatino berlinese. Non è facile se penso a Fabrizia Di Lorenzo che voleva solo un mondo più bello dove vivere. Se penso ai loro corpi falciati senza pietà, mi sale una rabbia immensa. Ma ecco che dobbiamo essere lucidi, e cercare di capire come siamo arrivati fino a questo punto. Dobbiamo farlo, anche solo per capire come difenderci. Se continuiamo a gridare al lupo al lupo non servirà a niente. Dobbiamo cercare Anis, chiunque esso sia, dietro la parola terrorista.

La prima falla
Ed ecco che questa vicenda emblematica ci spinge a guardare alle falle del nostro sistema. Parliamo tanto di legalità, ma è proprio l’illegalità del sistema che porta alla diffusione della peste terrorista.

Di Anis Amri sappiamo che è arrivato in Italia con un barcone.

Ecco la prima falla. Ecco quello che non va, il barcone.

Il viaggio dei migranti è in mano ai trafficanti, ai mafiosi. Loro decidono i prezzi, le rotte, le modalità.

Qualcosa che dovrebbe essere competenza degli stati oggi è in mano a criminali senza scrupoli.

Chi arriva in Europa deve farlo a costo di morire in mare o di morire nelle tappe precedenti. Si può morire in carcere in Libia, dopo uno stupro di gruppo o di sete nel deserto del Sahara. Negli anni settanta i padri di questi ragazzi che fanno il tahrib, così si chiama il viaggio di migrazione in somalo, potevano prendere un aereo e avevano dei visti. Oggi non c’è una maniera legale di arrivare in Europa. Ci sono solo i trafficanti. Questo è un dramma per i migranti, che rischiano la vita. Ma è un dramma per l’Europa. Come sa l’Europa chi arriva nel suo territorio?

Un tempo c’era un sistema di visti per arrivare dal Nordafrica in paesi come la Francia o l’Italia. Si era pendolari per un po’. Molti lo erano per lavoro, altri per studio. C’era un viavai controllato dall’una e dall’altra parte. Chi migrava non lo faceva per sempre, aveva la possibilità di tornare indietro. Le procedure non erano ottime, ma sicuramente migliori di quelle di adesso. Oggi non c’è più mobilità tra un lato e l’altro del Mediterraneo. Da mare aperto, oggi il Mediterraneo è diventato un mare chiuso, uccisi tutti gli scambi che hanno creato grandi civiltà.

Dal momento in cui Anis Amri mette piede in Italia comincia una sorta di discesa agli inferi che finirà solo con la sua morte a un posto di blocco a Sesto San Giovanni.

Vicino al luogo dove è morto Anis Amri, a Sesto San Giovanni, il 23 dicembre 2016. (Marco Bertorello, Afp)

Ora, Anis Amri era un soggetto a rischio, descritto come violento, etichettato come problema e molto probabilmente era vero.

Mi chiedo: si poteva recuperare questo ragazzo in qualche modo? Soprattutto nello stadio iniziale?

Non ho una risposta. Mi inoltro nella sua biografia. Ed ecco che lo vediamo chiedere protezione in quanto minore. Lui ha già compiuto 19 anni. Le autorità non lo sanno e lo mettono in un centro per minori.

Diciannove anni però non fanno di te un uomo.

Anis Amri è un dicianovenne violento, rissoso e confuso. Questo emerge dalle parole del padre intervistato da un giornale tedesco.

Il fortino dell’Europa
Il sistema, inoltre, porta a mentire. Anis ha mentito, ma forse non è il solo. Il richiedente asilo deve inserirsi in griglie prestabilite per ottenere l’asilo politico. Allora se sei del nord del paese X non puoi ottenere asilo, ma se dici di essere di Y allora la tua domanda sarà valutata. I migranti lo sanno e, pur di non vedersi rifiutata la domanda, si inventano storie non vissute. Le loro sofferenze sono autentiche, ma spesso la commissione non valuta l’individuo e vuole sentirsi raccontare quello che ha già prestabilito. Ed ecco che molti si fingono minori o fingono di essere chi non sono.

La realtà è complessa.

Se accolgono i siriani, allora anche un tunisino o un marocchino si finge siriano, su internet ci sono i tutorial per rifare l’accento di Damasco, di Homs e di Aleppo e anche se sei di Rabat o di Mahdia allora ci provi anche tu, perché l’Europa è diventata una fortezza. Sì, un fortino che continua a sfruttare il sud del mondo, le sue materie prime, ma che vuole il migrante solo dopo che abbia passato atroci sofferenze, perché dopo accetterà di lavorare per pochi spiccioli.

Il sistema è malato.

Se ci fosse un viaggio legale (e, sottolineo, legale) tutto questo non avrebbe bisogno di esistere.

Nessuno dovrebbe mentire.

Ma è al centro di accoglienza che Anis non ancora terrorista si perde completamente. Brucia insieme ad altri ragazzi una parte della struttura. È molto violento. Sconterà, come hanno già detto tutti i giornali, quattro anni di pena in varie strutture siciliane.

“Non si è radicalizzato in carcere”, dicono le autorità.

Ma il carcere lo ha inabissato sempre di più. Ha creato il terreno fertile per la radicalizzazione.

Lo sappiamo, le carceri italiane sono sovraffollate, invivibili. L’Ucciardone, dove Anis è finito, è noto alle cronache. Spazi angusti, corpi addensati in pochi metri soffocanti, detenuti promiscui loro malgrado. Le risse all’Ucciardone e in molte carceri italiane sono all’ordine del giorno. Il personale, soprattutto la polizia penitenziaria, è sempre sul piede di guerra. Sono in pochi e fanno turni massacranti. E poi hanno paura per la loro incolumità. Il loro numero non è sufficiente a tenere tutti quei detenuti.

La situazione nelle carceri è drammatica. Luigi Manconi e Rita Bernardini ce lo ricordano sempre che il nostro sistema penitenziario non solo è in crisi, ma produce ancora più frustrazione e criminalità.

Il carcere non dichiarato
Dopo L’Ucciardone c’è stato il Cie, il centro di identificazione ed espulsione. Un carcere non dichiarato dove si finisce perché si è in stato di irregolarità con i documenti o i n attesa di espulsione. I Cie sono un universo psicotico dove lo spazio e il tempo sono sospesi, si è solo trattenuti, ma in soldoni si è carcerati. Si attende. Puoi guardare la tv, le donne cercano di abbellire le loro celle che qui chiamano camere, ma sei in un non luogo e la tua diventa una non vita. Puoi rimanerci un mese, due, ma anche diciotto. Ci puoi finire dentro perché il tuo datore di lavoro non ti rinnova il contratto e quindi non puoi avere il permesso di soggiorno o, come il futuro terrorista Anis Amri, perché sei in attesa di espulsione dopo aver scontato una pena in carcere. Uscire dal carcere per finire in un altro che ha regole ancora più assurde del primo.

La malaccoglienza da troppo tempo in Italia produce schivitù e sfruttamento dei migranti

Basta leggere il rapporto Accogliere. La vera emergenza per capire che siamo nei guai. LasciateCIEntrare ha girato l’Italia per un anno intero, il 2015, monitorando i centri di identificazione ed espulsione (Cie), i centri di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) e i centri di accoglienza straordinaria (Cas).

Quello che emerge dal rapporto è la “malaccoglienza” italiana che diventa teatro dell’assurdo non solo nei Cie, ma mostra le sue crepe anche nelle strutture ordinarie d’accoglienza. Il sistema è costoso, il personale spesso non è preparato, in molti non sanno nemmeno l’inglese e non riescono a comunicare con i migranti, gli appalti non sono chiari, c’è tanta improvvisazione. Quello che ha fatto dire a Stefano Galieni, dell’associazione Diritti e frontiere, che “è la politica la grande assente di quanto sta accadendo in Italia e in Europa. Dietro ogni struttura che nasce o muore vi è opacità assoluta, non ci sono garanzie di standard reali di accoglienza”. Questa malaccoglienza, come ha sottolineato Yasmine Accardo, curatrice del volume e membro di LasciateCIEntrare, in una intervista a Piuculture “da troppo tempo in Italia non fa che produrre schiavitù e sfruttamento dei migranti, mentre continua a rappresentare in troppi casi una fonte facile di guadagno per chi si accaparra bandi o per chi riceve affidi diretti, motivati dall’emergenza”.

Malaccoglienza, ecco la parola per capire il mistero Anis Amri, un ragazzo difficile che di tappa in tappa diventa più violento, più opaco, dagli occhi insensibili. Ecco Anis Amri che accoltella il camionista polacco Łukasz Urban, che voleva comprare un regalo alla moglie a Berlino, ecco Anis Amri che mette il piede sull’acceleratore del tir rubato e falcia vite.

L’Italia è la porta dell’Europa. Salva vite certo, la guardia costiera fa un lavoro da Nobel della pace, fa un lavoro che non fa nessuno. Di questo possiamo essere orgogliosi.

Ma è sul resto che non va. Noi come gli struzzi mettiamo la testa sotto la sabbia. Basta che muoiono un po’ più in là, basta che non si facciano vedere troppo e se ne vadano in Germania e in Svezia. L’Italia non vuole organizzarsi. E questo non da oggi, ma dagli anni novanta. Qualcosa che ormai è un fatto ordinario è ancora definito emergenza. Non abbiamo personale preparato, non abbiamo strutture adeguate, come ci ha mostrato LasciateCIEntrare, non abbiamo carceri all’altezza, non sappiamo nulla dei paesi che si affacciano sul nostro stesso mare. Quando si parla di immigrazione si usano frasi retoriche come l’ormai sempreverde “Se ne tornassero a casa loro”. Ma nessuno parla seriamente di gestione del fenomeno o di piani per il futuro. E men che mai di investimenti. Come si può risolvere il nodo immigrazione senza soldi?

Ripenso agli occhi che descrive Francesca Bellino nel suo romanzo. Gli occhi dei giovani al di là del mare, in Tunisia.

Alcuni occhi sognano di diventare Mozart, Pelè o Steve Jobs.

Altri non hanno idea di cosa sia il futuro, sono arrabbiati, frustrati umanamente e sessualmente.

Arrivano sia i Mozart sia gli Anis Amri.

Ma la malaccoglienza è uguale per tutti. C’è chi con forza d’animo, ed è la maggior parte, ce la fa nonostante tutto. Alcuni continuano il viaggio verso terre che facilitano l’inserimento, altri restano qui a vendere frutta ai mercati o come un mio amico si trasformano da pescatori in apicoltori. E sì, c’è anche chi non molla e diventa comunque Mozart.

E poi ci sono gli Anis Amri. Sarebbe consolante fare come Ponzio Pilato, facile lavarcene le mani, e dire non è roba nostra, non ci interessa, era un violento psicopatico.

Probabilmente era un violento psicopatico, forse non avremmo potuto fare nulla per cambiare la sua sorte e quella delle sue vittime. Ma non ci siamo presi il disturbo di fare qualcosa.

La nostra politica è stata a guardare.

E anche noi non abbiamo fatto nulla, nessuna pressione affinché qualcosa cambiasse.

Avevamo il dovere di provare a recuperarlo.

Se non per solidarietà, per la nostra sicurezza, per impedirgli di finire tra le braccia del terrorismo.

Allora forse una delle armi è proprio l’accoglienza (non la sola, ovviamente, serve anche un coordinamento tra polizie e intelligence).

Combattere questa frustrazione che c’è in giro.

D’altronde basta leggere la propaganda jihadista per capire che i terroristi hanno paura dell’accoglienza. Dicono, non a caso, che il loro obiettivo è distruggere la “zona grigia”, ovvero lo spazio di convivenza tra diverse fedi e tradizioni.

Vogliono odio e frustrazione.

Vogliono la nostra paura.

Ecco perché per sconfiggerli bisogna andare ostinatamente nella direzione contraria. “Love is the answer” direbbe John Lennon. Certamente. Ma ripristinando la legalità. Solo la legalità, ovvero regole condivise e diritti non violati, potrà salvare la nostra civiltà. I muri ci porteranno tra le braccia dei terroristi e daranno manovalanza ai fomentatori dell’odio. Non permettiamo che questo succeda. Questa volta dipende anche da noi.

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