La notte dell’8 febbraio Mong Kok, il quartiere popolare e commerciale di Hong Kong si è trovato improvvisamente in fiamme: dai cassonetti incendiati si alzavano alte colonne di fumo nero che salivano lungo i muri dei palazzi affacciati sulla strada.

Ragazzi mascherati lanciavano pietre contro la polizia; altri, sanguinanti, scappavano dalle forze dell’ordine che li inseguivano con dei bastoni. Verso le due di notte, per la prima volta dal 1967, si sono sentiti anche colpi di arma da fuoco: un poliziotto ha sparato in aria perché, come ha spiegato in seguito, temeva “per la vita di un collega”.

Nessuno poteva immaginare che la giornata sarebbe finita così: il periodo del capodanno lunare in genere è il più tranquillo dell’anno. Lunghe giornate di vacanza da trascorrere in famiglia guardando la tv, facendo visita ai templi o passeggiando tra i mercatini per assaggiare le specialità preparate dagli ambulanti. E proprio i venditori di street food sono stati gli involontari protagonisti degli scontri dell’8 febbraio.

Elementi irrinunciabili

A innescare le proteste è stata la decisione del governo di sbarazzarsi dei baracchini di cibo giudicati improvvisamente “poco sani” senza dare il minimo ascolto alle proteste di chi li giudica parte integrante della vita cittadina. È un copione che si ripete, qualunque sia la decisione del governo: che si tratti di costruire una nuova linea ferroviaria, di imporre un nuovo sistema elettorale o di modificare il programma scolastico, il governo impone la sua volontà senza ascoltare chi è contrario, nemmeno facendo piccole concessioni che potrebbero calmare gli animi.

Gli scontri a Hong Kong, l’8 febbraio


Ma oggi il clima a Hong Kong è troppo teso e gli abitanti hanno i nervi a fior di pelle: è impossibile accettare la decisione del governo di eliminare le “potenziali cause di malattie dell’apparato digerente” – in questo caso il cibo tradizionale – che per la popolazione sono elementi identitari fondamentali e irrinunciabili, esattamente come il cantonese – la variante locale della lingua cinese minacciata dalla presenza sempre più ingombrante del mandarino parlato in Cina –, la libertà di stampa o le polpettine di pesce, servite con la salsa al curry o grigliate dagli ambulanti di Mong Kok.

Così, appena si è saputo dello sgombero imminente, su Facebook (la principale piattaforma usata dagli abitanti dell’ex colonia britannica per organizzare manifestazioni di protesta) è comparso l’hashtag “rivoluzione delle polpettine di pesce”, e molti militanti dei movimenti “localisti” e “indigeni” antiPechino si sono dati appuntamento vicino alla stazione della metropolitana del quartiere commerciale per andare a difendere gli ambulanti.

Panico della polizia

Dopo quest’inizio violento del nuovo anno lunare, Hong Kong è ancora più scossa. Mentre il caso dei librai scomparsi non è ancora stato risolto, gli scontri violenti di Mong Kok ripropongono la crescita di tensione a cui si è assistito dall’inizio del movimento degli ombrelli del 2014: alcuni manifestanti frustrati e altri arrabbiati lanciano pietre contro la polizia e bruciano quel che trovano, tanto da far sospettare l’infiltrazione di agenti in borghese tra i manifestanti.

Di fronte a loro gli agenti impreparati, facili prede del panico, si presentano in tenuta antisommossa contro dei venditori di polpettine in un’operazione sproporzionata terminata con 54 arresti, un numero imprecisato di feriti, e un nuovo colpo alla stabilità e alla governabilità di Hong Kong. L’aumento della violenza e della tensione, infatti, non fa altro che ridurre gli spazi democratici già sotto attacco e fare il gioco di chi, tanto all’interno del governo locale quanto a Pechino, vuole vedere la città diventare sempre più simile al resto della Cina, privata dello statuto speciale che fino a oggi le ha consentito di dirsi parzialmente democratica.

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