Quando, a diciassette anni, Hyeon Seo Lee ha lasciato il suo paese, non immaginava che non sarebbe più ritornata. Non era mai stata fuori ed era curiosa di vedere cosa c’era al di là del fiume ma, anche se ormai non credeva più di vivere in un paradiso come le avevano detto fin da piccola, quella era pur sempre casa sua. A Hyesan, la sua città, centro commerciale nella Corea del Nord settentrionale al confine con la Cina, fino alla metà degli anni novanta non si stava male. “Spesso mancava l’elettricità, di notte si rimaneva al buio, e d’inverno non tutti potevano permettersi la legna per scaldarsi”, racconta. Lei, però, veniva da una famiglia della classe media, il padre funzionario del governo e la madre impiegata in un’azienda. Non avevano mai avuto grandi problemi. “Come in tutte le città nordcoreane c’era chi stava meglio e chi meno, ma non avevo mai visto nessuno morire di fame”, ci racconta in un bar di fronte a Gwanghwamun plaza, una piazza centrale di Seoul rimessa a nuovo nel 2009. Del resto del mondo sapeva pochissimo. Sentiva parlare del Giappone e degli Stati Uniti, acerrimi nemici di Pyongyang, e della Russia, di Cuba, dell’Iran, i paesi con cui la Corea del Nord ha rapporti amichevoli. Del Sud sapeva che era un paese poverissimo, pieno di senzatetto, dove la gente moriva di fame per le strade e dove gli americani uccidevano i coreani. E poi la Cina, chiaramente, che poteva vedere al di là del fiume Yalu. “In quel punto della regione il fiume è così stretto che è possibile parlarsi da una sponda all’altra”, ci spiega. “Quando ero piccola e d’inverno il fiume ghiacciava, andavamo lì a giocare insieme ai bambini cinesi, la frontiera spariva”. Trattandosi di una città commerciale, merci e persone da Hyesan attraversavano il confine con la Cina in un senso e nell’altro. A metà degli anni novanta, però, la situazione è cambiata. Nel 1994 Kim Il-sung è morto e Mosca, che aveva tenuto a battesimo il regime nordcoreano, ha chiuso il rubinetto degli aiuti. La carestia che ne è seguita stava mettendo in ginocchio il paese ed è arrivata anche a Hyesan. “Sono rimasta scioccata dalla morte di Kim Il-sung, non credevo che Dio potesse morire”, ricorda Lee. “Non mi veniva da piangere, perché in fondo non era uno dei miei genitori, però mi sono sforzata di farlo. Versare lacrime davanti alle immagini di Kim Il-sung o Kim Jong-il è normale, si fa, non c’è nessuno che ti costringe ma ogni nordcoreano cresce sapendo che è giusto così. Quando però abbiamo saputo che una famiglia di nostri conoscenti stava morendo di fame, mi è crollato il mondo addosso”.
**In quel periodo **molti nordcoreani hanno cominciato a scappare e il governo ha rafforzato la sorveglianza al confine con la Cina. “Al fiume si vedevano sempre meno persone, solo pochi continuavano ad andarci per lavare i piatti o fare il bucato”. Nel 1997 anche Lee è scappata. Ancora oggi, l’80 per cento di chi tenta la fuga lo fa attraversando il fiume Tumen, nella regione nordorientale di Ryanggang. Ma una piccola parte passa la frontiera lungo lo Yalu. Lo scorso gennaio Lee ha raccontato in una TED conference la storia della sua fuga e di come, dopo qualche anno, è riuscita a portare al Sud anche la sua famiglia. “Non è stato molto difficile. Con le guardie ci si conosceva, mio padre era influente e avevo il denaro necessario a pagare le mazzette. In Cina ho raggiunto dei parenti che mi hanno ospitato. Anche loro stanno bene, e dopo tre anni in cui ho vissuto da clandestina sono riusciti a procurarmi la cittadinanza cinese, sempre grazie a favori e tangenti”, racconta. Ha vissuto in Cina per dieci anni e non aveva intenzione di trasferirsi in Corea del Sud “ma quando sono arrivata qui per vedere il paese almeno una volta ho capito che era il caso di fermarmi, in fondo sono coreana”.
Lee, che oggi ha 33 anni e frequenta l’università di studi stranieri di Seoul, non ha l’aria di aver trovato il suo posto ideale, nonostante sia pienamente inserita e goda di una certa visibilità tra i nordcoreani al Sud. Ha in cantiere la pubblicazione delle sue memorie, di cui il suo agente di Hong Kong ha già venduto i diritti in diversi paesi, e ha raccolto in un altro libro le storie di dieci donne scappate in Cina. Aveva cominciato a farsi un’idea meno terribile sul Sud quando ancora viveva a Hyesan: “Oggi dalla Cina arrivano le soap opera, ma allora ci passavamo sottobanco le cassette con la musica melodica sudcoreana degli anni sessanta. Per noi, abituati alle canzoni della propaganda, era una scoperta sentire brani che parlavano delle persone comuni, della vita, dell’amore. Non doveva essere poi così male il Sud”.
Per molti nordcoreani, però, è forte la delusione nel trovare un paese poco accogliente, dove la vita è più dura di quanto immaginassero e dove trovare un lavoro è tutt’altro che automatico. “C’è chi decide di chiedere asilo all’estero: la Gran Bretagna, il Canada, la Francia e, ultimamente, il Belgio sono le destinazioni preferite. I nordcoreani scelgono il paese dove andare in base al welfare”, spiega Lee che invece ha in progetto di andare negli Stati Uniti per fare un master dopo la laurea, tra un anno. E c’è anche chi vuole tornare al Nord. Ci sono stati alcuni casi del genere in passato e proprio in questi giorni sta facendo discutere la decisione di Son Jong-hun, che dopo undici anni in Corea del Sud vuole andarsene sbattendo la porta, indignato per l’interesse nullo dei sudcoreani verso l’unificazione e verso i coreani del Nord. Son, a cui è stata diagnosticata un male incurabile, vuole tornare a casa, e ha intenzione di farlo alla luce del sole per mandare un messaggio forte a Seoul. Non è sicuro, però, che il governo sudcoreano glielo permetterà.
Hyeon Seo Lee non tornerà al Nord ma, ammette, “mi piacerebbe rivedere casa mia”.
Junko Terao è l’editor di Asia e Pacifico di Internazionale. Su Twitter: @junkoterao
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it