Tra le reazioni provocate dalla foto del corpo di Aylan Kurdi sulla spiaggia di Bodrum, ce n’è stata una particolarmente odiosa. Il primo ministro australiano Tony Abbott, perdendo una buona occasione per tacere, ha commentato l’immagine definendola “molto triste” e ha ribadito che “per fermare morti e annegamenti bisogna fermare i barconi. Per fortuna in Australia abbiamo fermato tutto questo bloccando gli sbarchi illegali”.

Abbott non ha esitato un attimo a cavalcare l’onda emotiva sollevata da quella foto per esaltare la scellerata politica migratoria che il suo governo (e altri, conservatori e laburisti, prima del suo) sta portando avanti con risultati ottimi per quanto riguarda la diminuzione degli sbarchi (secondo i dati ufficiali nel 2013 – quando Abbott si è insediato – i profughi “non autorizzati” arrivati sulle coste australiane sono stati 20.647, nel 2014 sono stati 160 e fino al marzo del 2015 solo quattro) ma disastrosi dal punto di vista umanitario.

Respingimenti e centri di detenzione offshore

La nuova versione della Pacific solution (la politica in vigore tra il 2001 e il 2007 che ha introdotto i centri di detenzione offshore per richiedenti asilo), inaugurata da Abbott alla fine del 2013, prevede l’uso della marina militare per respingere i barconi in arrivo dal sudest asiatico – in genere dall’Indonesia con a bordo soprattutto afgani, siriani, iraniani, iracheni e rohingya in fuga dalla Birmania – e dirottarli verso l’isola di Nauru e l’isola di Manu, in Papua Nuova Guinea.

Su queste isole il governo australiano ha costruito centri di detenzione gestiti da aziende private e ospitati dai governi locali in cambio di generosi aiuti allo sviluppo (Nauru ha poco più di diecimila abitanti, un tasso di disoccupazione intorno al 23 per cento e un’economia che si regge in gran parte sulla presenza del centro di detenzione australiano).

In queste strutture, a cui si aggiunge quella di Christmas island, territorio australiano, i profughi rimangono per mesi in attesa che le loro richieste d’asilo siano esaminate. E chi ottiene lo status di rifugiato può restare sull’isola o scegliere se essere trasferito in Cambogia o in Papua Nuova Guinea (nota: il 40 per cento degli abitanti della Papua Nuova Guinea vive sotto la soglia di povertà e il paese, per dare un indicatore tra gli altri, è ritenuto il peggiore al mondo per la violenza di genere).

Le condizioni nel centro di Nauru sono insostenibili e tutti i minori devono essere trasferiti al più presto

Abbott non fa che sbandierare il successo della sua strategia, proponendola come modello anche per l’Unione europea, ma negli ultimi giorni le sue certezze sono diventate più fragili.

Canberra nel 2014 ha pagato l’equivalente di 34 milioni di euro a Phnom Penh perché accogliesse, nell’arco di quattro anni, alcuni dei profughi che hanno ottenuto asilo, ma nell’anno trascorso dalla firma dell’accordo, solo quattro (tre iraniani e un rohingya, che pare abbia rinunciato alla sua richiesta d’asilo e voglia tornare in Birmania, secondo quanto riferito domenica dal governo cambogiano) hanno scelto il trasferimento da Nauru, e sembra che il governo cambogiano non abbia intenzione di prenderne altri.

Così ha scritto il Cambodia Daily a fine agosto riportando le parole di un portavoce del ministero dell’interno e mettendo in imbarazzo il governo australiano.

Politiche disumane

A rincarare la dose, il 1 settembre è arrivato il rapporto della commissione istituita dal senato di Canberra per indagare sulle condizioni nel centro di Nauru, da dove trapelavano da tempo notizie di maltrattamenti, stupri e violenze anche se giornalisti e osservatori esterni sono tenuti alla larga e dal 1 luglio, in virtù di una nuova legge, il personale che ci lavora rischia fino a due anni di galera se rivela quello che accade nelle strutture detentive.

Il verdetto della commissione del senato è inequivocabile: le condizioni nel centro di Nauru sono insostenibili e tutti i minori devono essere trasferiti al più presto.

Due giorni dopo il New York Times ha dedicato un editoriale alle politiche “disumane, di dubbia legalità e fortemente in contrasto con l’accoglienza che l’Australia ha sempre riservato a chi fuggiva da guerre e persecuzioni”. Per conto di Canberra ha replicato il ministro dell’immigrazione Peter Dutton, respingendo le “accuse infondate” a una politica “sicura, lecita ed efficace”. Spinto dalle pressioni dell’opposizione e di parte della sua coalizione perché l’Australia accolga più profughi siriani, Abbott ha annunciato che sì, aumenterà la quota di visti umanitari concessi a siriani e iracheni, ma il numero totale dei rifugiati accettati dall’Australia (13.750) rimarrà invariato.

A maggio Abbott aveva parlato di “contatti a livello ufficiale tra australiani ed europei” per confrontarsi sulla crisi migratoria, ma la portavoce della Commissione europea Natasha Bertaud si era affrettata a specificare che “l’Unione non intende seguire l’esempio australiano”. Anche il New York Times il 3 settembre, ha parlato di “funzionari europei” che recentemente sarebbero andati in Australia per vedere i risultati della linea dura contro i migranti. Per fortuna, però, il modello Abbott comincia a mostrare le prime crepe.

Della crisi dei migranti nel Pacifico si parlerà in un incontro al festival di Internazionale a Ferrara il 4 ottobre.

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