Due mondi chiusi con le loro strane regole. Due mondi strani, in cui le persone sono braccate e cancellate per il semplice fatto che sono quello che sono.
Il primo mondo è quello di Auschwitz, nel film Saul Fia (Il figlio di Saul) di László Nemes. Il secondo è quello inventato del regista greco Yorgos Lanthimos in The lobster (L’aragosta), una parabola ispirata a un grande mito: esiste per tutti, da qualche parte, un’anima gemella.
Ma cominciamo da Saul fia (Il figlio di Saul). È raro che un regista sia in concorso a Cannes con un film d’esordio. Ma sarebbe stato difficile escludere Saul fia. Tutto girato nel formato Academy – racchiudendo l’orrore di quello che vediamo fra muri stretti, negando il respiro dello schermo panoramico – il film racconta la storia di un certo Saul Auslander, un deportato ungherese (l’Ungheria era la nazione più rappresentata fra le vittime di Auschwitz) che si è guadagnato qualche mese di vita in più accettando di lavorare in un Sonderkommando.
Il lavoro di Saul consiste nel condurre gli ungheresi, appena scesi dai treni, verso le docce dove saranno sterminati. Poi deve aiutare a rimuovere i corpi – chiamati stücke (pezzi) dalle guardie tedesche – e trasportarli, ammassati su carrelli, verso i forni crematori. Deve anche raccogliere i vestiti e frugare fra le tasche per trovare oggetti di valore, che diventano merce di scambio. Vediamo tutto questo – i cadaveri di solito fuori fuoco, ma non per questo meno agghiaccianti – mentre Saul cerca di compiere una missione impossibile: dare una sepoltura decente al corpo di suo figlio, che ha riconosciuto tra i “pezzi”.
Il film ci fa entrare, anche cromaticamente, nella “zona grigia” di cui Primo Levi ha parlato nel suo ultimo libro, I sommersi e i salvati. Quel mondo di complicità fra vittime e carnefici che doveva essere portato come croce per tutta la vita da chi ha accettato il patto con il diavolo. Una complicità che, inoltre, rende tutti soli all’interno del campo. Come Saul che, pur appartenendo a una squadra di lavoro, è sempre guardingo, un atomo impaurito in moto perpetuo. Per dirlo con Levi: “si entrava sperando almeno nella solidarietà dei compagni di sventura, ma gli alleati sperati, salvo casi speciali, non c’erano; c’erano invece mille monadi sigillate, e fra queste una lotta disperata, nascosta e continua”.
Nonostante qualche forzatura formale, Saul Fia è un film importante, devastante, forse il primo che riesce a calarsi non tanto nella realtà di un campo di concentramento (sarebbe forse impossibile), ma almeno nella sua realtà psicologica. È l’antidoto a La vita è bella. Finora sembra uno dei favoriti per la Palma d’oro.
In confronto, The lobster di Yorgos Lanthimos, esponente di spicco della nouvelle vague del cinema greco, può sembrare frivolo, un mero esercizio di stile. Girato in inglese, con un cast importante (Colin Farrell, Rachel Weisz, Lea Seydoux, John C. Reilly), è ambientato in un mondo simile al nostro, con l’unica differenza che l’essere single è considerato un affronto alla società. Quelli che si trovano in questo stato – anche per la morte del compagno o compagna – sono portati in un albergo in riva al mare, dove hanno 45 giorni per trovare, fra gli altri ospiti, qualcuno con cui dividere il resto della vita. Se falliscono, vengono trasformati in un animale a loro scelta. All’inizio del soggiorno il protagonista David, un divorziato triste interpretato da Colin Farrell che somiglia un po’ a Ned Flanders dei Simpson, sceglie l’aragosta.
Cinema dell’assurdo? Certo. Chi ha visto i precedenti film del regista – Dogtooth (2009), soprattutto, ma anche Alpi (2011) – saprà di andare incontro a personaggi stilizzati, che recitano dialoghi artificiosi. Un trucco comune in tutti i film di Lanthimos e del suo sceneggiatore fedele, Efthymis Filippou, è quello di mettere delle parole da bambini viziati in bocca agli adulti. Ma una volta che hai accettato le regole del gioco – e la realtà parallela del mondo dipinto nel film – The lobster diventa molto più di un’allegoria facile facile sul dating e la sindrome da zitella o zitellone.
Quando David riesce a fuggire per unirsi con i “solitari” – dei single clandestini che vivono nel bosco e che sono braccati dagli ospiti dell’hotel – troverà una società repressiva almeno quanto quella da cui è scappato, governata da una serie di regole altrettanto ferree, come il divieto di innamorarsi di un altro solitario. Sotto gli atteggiamenti da teatro d’avanguardia di The lobster si nasconde un grande pathos e la visione malinconica di un mondo in cui la nostra sfera emozionale non ci appartiene più. Un mondo falso in cui siamo più disposti ad affidarci ai risultati di un quiz che non al nostro cuore.
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