La magnifica colonna sonora di Scott Walker è solo uno degli elementi che rende The childhood of a leader uno dei film più originali e sorprendenti visti a Venezia finora. Ambientato nella Francia rurale nel 1919, racconta la storia di un bambino capriccioso, figlio di un diplomatico che fa parte della delegazione statunitense ai negoziati che porteranno alla firma del trattato di Versailles. Molti hanno detto di non averci capito un tubo, ma per me il significato di un bambino rancoroso che fa le bizze mentre gli adulti spartiscono l’Europa è lampante. È un esperimento di psicostoria allusivo, pieno di presentimenti della nascita del fascismo, una storia che racconta qualcosa di diverso rispetto a ciò che sembra raccontare. La vera ironia è che la presenza di Robert Pattinson, che ha solo quattro brevi scene nell’intero film, ha attirato frotte di ragazze al Lido – per un’opera testardamente fuori da ogni logica commerciale
L’altro piatto forte della sezione parallela Orizzonti, almeno per me, è stato Boi neon (Toro di neon), un film brasiliano che ritrae una famiglia alternativa, un gruppo di trasportatori e ammaestratori di tori che sono usati nei popolari rodei campestri nel nordest del paese. Pelle e muscoli, sudore e polvere, i corpi massicci dei tori, rinchiusi in stretti recinti di legno prima di essere scaraventati nell’arena – sarebbe forse un esempio di neo-neo-realismo piuttosto scontato, se non fosse per la delicatezza con cui il film tratteggia il rapporto tra la tredicenne Cacà, sua madre danzatrice, Galega, che non vuole occuparsi di lei, e l’ammaestratore Iremar, un uomo forzuto ma buono che nel tempo libero disegna costumi per Galega e sogna di diventare stilista. Galega, per conto suo, aggiusta il camion ed è molto gelosa dei suoi attrezzi, che a malavoglia presta agli uomini.
Quando incontriamo una venditrice di profumi, incinta, che di notte fa la guardia armata in una fabbrica, abbiamo la certezza di essere di fronte a un gioco ironico di ruoli, una messa in dubbio del machismo che domina la cultura del rodeo. Ma quest’elemento rimane accennato, non prende mai il sopravvento sulla tenerezza e la credibilità della storia di Cacà, una ragazza dura fuori ma fragile dentro, che sogna i cavalli in questo mondo di tori.
Ormai anche l’Italia può vantare una discreta filmografia in materia di mockumentary. L’ultimo della serie, passato ieri sul Lido, si chiama Pecore in erba ed è l’opera prima di Alberto Caviglia, cha ha fatto la gavetta come assistente alla regia di Ferzan Ozpetek. Il film è fatto in forma di un lungo special televisivo su Leonardo Zuliani, un ragazzo romano di Trastevere, che diventa un eroe dell’impegno civile per la sua lotta contro l’anti-antisemitismo, ovvero “l’antisemifobia”. Diventa così famoso che gli dedicano anche un film biografico, “Paura di odiare”. Sentiamo interviste con esperti finti e veri (Vittorio Sgarbi, Corrado Augias, Gip, Giancarlo De Cataldo e tanti altri) che riconoscono il lavoro importante di Leonardo nella lotta contro la repressione degli antisemiti, di quelli come lui che credono nel “complotto pluto-giudaico-massonico reazionario”. A un certo punto un sociologo sentenzia che “impedire a qualcuno di odiare è come impedire a qualcuno di amare”.
Altrettanto deludente, anche se di fattura migliore, A bigger splash di Luca Guadagnino
Il film non è perfetto – troppo lungo, con una satira un po’ sfocata che spesso preferisce la battuta facile alla stoccata acuta – ma funziona. La cosa agghiacciante, naturalmente, è il fatto che opinioni assurde come quelle prese in giro in questo mockumentary esistono davvero: basta cercare “right to hate” (diritto di odiare) su internet e vedere cosa esce fuori. Un esempio: “La verità è che hai il diritto di essere razzista, bigotto, omofobo o semplicemente ignorante. Hai il diritto di avere torto”.
E La ragazza danese, con Eddie Redmayne nei panni di Einar Wegener, alias Lili Elbe, la prima persona nel mondo a subire un intervento di riassegnazione chirurgica del sesso? No, per carità. È il classico film leccato “Oscar-bait”, cioè un’esca per gli Oscar: è la trans che potresti portare a casa a conoscere i genitori. La storia vera di Wegener era complicata, anche per il ruolo nella faccenda della moglie Gerda, la cui identità lesbica è ignorata dalla sceneggiatura. Qui invece è una donna tragicamente fedele, anche dopo la trasformazione di Einar in Lili, che trova consolazione nelle braccia di un altro uomo solo quando il marito la respinge.
Altrettanto deludente, anche se di fattura migliore, A bigger splash di Luca Guadagnino srotola un cast d’eccezione, a partire dalla musa del regista, Tilda Swinton, qui affiancata da Ralph Fiennes, Dakota Johnson (quella di 50 sfumature di grigio) e Matthias Schoenaerts. Ambientata sull’isola di Pantelleria (“Non abbiamo mangiato i capperi neanche una volta”, si lamenta il personaggio di Fiennes a un certo punto), è il remake del film francese La piscine del 1969, con Alain Delon e Romy Schneider.
Gelosia e tensione tra quattro persone in un dammuso radical-chic: una rock star non più giovane (Swinton), il suo amante muscoloso (Schoenaerts), il suo ex amante, un produttore discografico cocainomane (Fiennes) che ha spinto lui (un amico) nelle braccia di lei ma adesso la vuole riprendere, e la figlia del produttore, una ragazzina sexy pronta a gettare benzina sul fuoco. Solo che di fuoco c’è ben poco, a parte la recita esaltante di Fiennes. A bigger splash non sa se vuole essere melodramma o thriller, commedia amara o dramma generazionale. Il risultato è un susseguirsi di idee interessanti e tic autoriali che non si legano insieme.
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