Dovremmo rivendicare, nel nome della tolleranza, il diritto a non tollerare gli intolleranti.– Karl Popper

Il sistema democratico è quello dove la libertà di espressione e di parola trova il suo massimo riconoscimento e prevede le tutele più robuste per la sua piena affermazione. Al contempo è proprio il sistema democratico quello in cui la libertà di espressione e di parola è più frequentemente sottoposta a tensioni e messa alla prova da controversie intorno all’esistenza o meno di vincoli e limiti al suo incondizionato dispiegarsi.

Nel mio piccolo e in un singolare aggrovigliarsi di problematiche affini, ho dovuto affrontare in poche settimane una parte significativa delle contraddizioni che la libertà di espressione e di parola può incontrare. E ho dovuto assumere decisioni tutt’altro che facili, per nulla automatiche e fatalmente tortuose. Espongo qui di seguito una premessa e tre vicende dove le questioni prima indicate si sono manifestate in tutta la loro scivolosità e ambiguità.

Premessa. Ritengo scontato che le parole di Domenico Dolce e Stefano Gabbana non debbano essere in alcun modo perseguite e sanzionate. Ma se questo è fin troppo ovvio, tutto il resto è maledettamente complicato.

Uno. Il processo a carico di Erri De Luca per istigazione a delinquere. Qui siamo in presenza di un caso residuale di reato d’opinione. Ovvero parole. Perle di saggezza o sesquipedali minchiate che siano, si tratta comunque di fonemi. Ed è davvero puerile immaginare che eventuali atti di sabotaggio effettivamente compiuti da militanti No Tav siano stati determinati, o sollecitati, o incentivati o anche solo legittimati, dalle affermazioni di uno scrittore.

D’altra parte, questi ha avuto buon gioco a ricordare come il verbo sabotare abbia una pluralità di significati, e richiami una varietà di esperienze storiche, non certo tutte riducibili ad atti di violenza e a manifestazioni cruente. E ha fatto bene De Luca a richiamare il “buon uso del sabotaggio”, teorizzato e praticato dal mahatma Gandhi. Tutto ciò non solo contribuisce a rendere poco plausibile l’accusa di “istigazione”, ma consente soprattutto di misurare la distanza profonda tra libertà di espressione (di qualunque espressione) e commissione di reati.

Ma, detto questo, si può entrare propriamente nel merito. Il “sabotaggio” sarebbe il delitto cui, secondo la procura di Torino, De Luca avrebbe istigato i suoi lettori. E, in effetti, De Luca aveva parlato letteralmente di “sabotaggio” della Tav, come unica alternativa alle mediazioni fallite. E come sabotaggio in senso letterale e tecnico sembrerebbe averlo inteso la procura: ovvero, come recita l’articolo 508 del codice penale, quella forma particolare di danneggiamento di “macchine, scorte o strumenti destinati alla produzione (…) industriale”.

Dunque, De Luca avrebbe istigato alla commissione (del tutto eventuale e ipotetica) di tale reato. Ma proprio a questo si riferiva De Luca dicendo che la Tav “va sabotata”? Forse intendeva, più verosimilmente, il sabotaggio in senso atecnico, quale azione politica di contestazione e contrasto, ma non necessariamente violenta. In quest’ipotesi, quindi, De Luca risponderebbe penalmente per aver espresso un’opinione, al più aver fatto propaganda politica avversa a un’iniziativa del governo; nell’esercizio, dunque, di un diritto fondamentale. E l’imputazione ricorderebbe un po’ quella “propaganda antinazionale” che solo da otto anni non è più reato. E comunque, se anche alludesse non al sabotaggio in senso lato, ma proprio a quel particolare danneggiamento punito dal codice, De Luca risponderebbe pur sempre di un’opinione. Che non sarebbe legittimo punire neppure per evitare che quegli atti di virtuale violenza cui egli istigherebbe siano poi, effettivamente, realizzati.

In una democrazia, infatti, il limite ultimo cui può spingersi la pena è quello del tentativo: di quegli atti, cioè, finalizzati in maniera diretta e inequivocabile alla commissione di un delitto. Spingersi oltre vorrebbe dire processare e punire, appunto, le intenzioni. La conquista più grande dei sistemi liberali e dello stato democratico è quella di sostituire al diritto penale delle intenzioni il diritto penale del fatto, limitando cioè la punibilità alle sole azioni manifestate con atti esteriori e lesivi di valori essenziali per l’ordinamento. Le costituzioni moderne hanno poi codificato il principio di materialità come presupposto di legittimazione della pena; che può sanzionare solo il “fatto” umano, che sia oltretutto lesivo di beni giuridici. La stessa apologia è stata ritenuta dalla consulta legittima solo in quanto intesa come non limitata alla mera “manifestazione di pensiero pura e semplice, ma a quella che per le sue modalità integri comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti” (sentenza 65/1970).

Due. La deliberazione del senato sull’insindacabilità delle parole indirizzate da Roberto Calderoli verso l’allora ministra Cécile Kyenge. Quanto fin qui scritto può valere nel caso delle frasi di Calderoli contro Cécile Kyenge? Ecco che il vicepresidente del senato ha detto: “Smanettando con internet, apro il sito del governo italiano e vedo venire fuori la Kyenge: io resto secco. Io sono anche un amante degli animali, per l’amor del cielo, ho avuto le tigri, gli orsi, le scimmie e tutto il resto, poi i lupi anche ho avuto. Però quando vedo uscire delle sembianze di orango, io resto ancora sconvolto. Non c’è niente da fare” (Treviglio, 13 luglio 2013).

Qui siamo in presenza di un caso in cui la piena libertà di parola e di espressione ha superato incontrovertibilmente un limite insuperabile. Dunque, da un punto di vista istituzionale e procedurale, il mio voto è decisamente a favore della sindacabilità di quelle parole. Sono convinto, infatti, che non si tratti di una mera espressione della funzione parlamentare e che quelle frasi non siano riconducibili al mandato istituzionale, per il quale soltanto è riconosciuta la prerogativa della “insindacabilità”. Ma tutto ciò non può limitarsi a considerazioni di ordine giuridico-formale.

Da qui una digressione. Io non so se il senatore Calderoli sia razzista. È questione che riguarda solo lui. Ma le sue parole, quelle sì, sono inequivocabilmente razziste. Personalmente mi auguro che, in ultima istanza, Calderoli non lo sia perché il razzismo addolora e affatica il razzista oltre a infliggere ben più gravi dolori e fatiche alle sue vittime. È per tale ragione che ricorro a questo temine assai raramente e con estrema prudenza. Così che – contrariamente a quanto pensano molti (e moltissimi leghisti tra essi) – io non definisco la Lega un partito razzista, se non quando strettamente necessario. Quando, cioè, le parole e le politiche della Lega risultano inconfutabilmente razziste.

Tanta cautela è motivata dal fatto che, nelle società democratiche e liberali quell’epiteto (razzista) è tutt’ora, e provvidenzialmente, la definizione più connotativa in senso spregiativo. In altre parole è il termine che, in quelle stesse società democratiche e liberali, esprime la più radicale interdizione morale. Dopo di che, in questa circostanza il ragionamento da fare è piuttosto un altro: ed è, per così dire, precedente. Perché qui l’offesa da prendere in considerazione non è quella indirizzata contro l’appartenente a un’etnia, a una confessione religiosa, a una minoranza straniera: qui l’offesa è indirizzata, piuttosto, contro l’elemento costitutivo della persona umana.

Ovvero la sua dignità e l’immagine pubblica di essa; e il suo “diritto ad avere diritti”. E qui interviene il discorso della insindacabilità. Nonostante l’abuso che se ne è fatto – e i mutamenti avvenuti nel quadro politico istituzionale – io considero l’insindacabilità una tutela importante del parlamentare. Un filtro necessario a garantirne l’autonomia e l’indipendenza. E tuttavia – come corte costituzionale e Cedu hanno più volte chiarito – il limite che il mandato parlamentare, pur nel suo più ampio e libero esercizio, non può superare è quello della dignità umana. La cui violazione degrada quell’essenziale prerogativa democratica in un inaccettabile strumento di prevaricazione e umiliazione dell’altro.

Tre. La legge contro il negazionismo. La terza vicenda che riguarda in profondità la questione della libertà di espressione e di parola è quella relativa al dibattito sulla normativa in materia di negazionismo (approvata dal senato l’11 febbraio scorso). Dibattito che, ancora una volta, ci ha posti di fronte a quella che sociologi e filosofi del diritto definiscono una scelta tragica, ovvero un conflitto tra due beni ugualmente meritevoli di tutela: da un lato, il diritto alla piena libertà di espressione e di parola, e, dall’altro, il diritto alla tutela della dignità della persona (come singola, come vittima e come parte di un gruppo), quale valore fondamentale. In un sistema democratico questi due diritti possono confliggere: e cercare la strada per una loro composizione è un’impresa assai ardua. E spesso al di là della nostra portata.

In generale, penso che un sistema democratico debba essere abbastanza forte e maturo per tollerare qualunque parola efferata, qualunque propaganda crudele, qualunque affermazione suscettibile di offendere la sensibilità individuale e collettiva. Penso, insomma che la democrazia debba correre il rischio della libertà. E, tuttavia, ritengo che questa capacità di infinita tolleranza da parte dei sistemi democratici possa trovare un limite: e che quel limite risieda esattamente nella intangibilità della dignità della persona. Direi, nella sua inavvicinabilità. Tanto più quando quella persona è un soggetto massimamente vulnerabile, come appunto la vittima. E la vittima è una figura simbolica e allo stesso tempo terribilmente concreta. È l’immagine di una ingiustizia patita, ma contemporaneamente l’oggetto in carne e ossa di quella stessa ingiustizia.

È significativo che la corte costituzionale tedesca, nel 1994, abbia qualificato come parte della “personale autopercezione e dignità [degli ebrei tedeschi] l’essere considerati come appartenenti a un gruppo di persone distinte per il loro destino. Chiunque cerchi di negare [la shoah] nega a ciascuno di loro il valore personale a cui ha diritto”. Ebbene, quando la libertà di espressione e di parola arriva a ledere la dignità della vittima, io credo che qui, esattamente a questo punto, si rende necessario imporre un limite. E se si ritiene che la violazione di quel limite debba essere sanzionata penalmente (visto che sono reati il pascolo abusivo, l’oltraggio a pubblico ufficiale e perfino l’alterazione delle creste papillari, ovvero la più frequente forma di autolesionismo dei migranti), deve trattarsi, conseguentemente di un reato non di opinione, bensì di vera e propria discriminazione. Di violazione, cioè, della dignità.

Non è facile tracciare il perimetro di questa azione penale di tutela della persona dalla violenza e dalla discriminazione: e, anzi, rispetto a temi che come questo coinvolgono la memoria di una tragedia collettiva, si avverte l’incommensurabilità e l’assoluta inadeguatezza (del diritto e) della pena a esprimere il reale disvalore – umano, sociale, politico – del rifiuto di riconoscere quella storia e quella identità. Non è proprio possibile affidare, non al carcere, ma alla discussione pubblica, alla formazione, alla cultura, il compito di contrastare quella degenerazione della memoria? Soprattutto per questi crimini, che forse non si possono “punire né perdonare”, ci sarebbe allora bisogno di quel “qualcosa di meglio del diritto penale” cui pensava Gustav Radbruch, grande teorico dell‘“ingiustizia legale”, proprio ai tempi dell’olocausto.

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