Tra le molte parole dette e scritte e urlate che accompagnano i piccoli tumulti di Quinto di Treviso e di Casale San Nicola, a Roma, due frasi si impongono e si inseguono in una apparente violenta contraddizione.
La prima: fuori gli immigrati. La seconda: non siamo razzisti. La prima affermazione è inequivocabile e autosufficiente. La seconda – scritta su muri e cartelli –, pur perentoria, va interpretata. E significa più cose. Il primo significato è – in qualche modo e nonostante tutto – positivo.
Mentre si oppongono con metodi non pacifici all’arrivo di un gruppo di richiedenti asilo quei cittadini italiani non vogliono essere considerati “razzisti”. Falsa coscienza, ipocrisia o qualcosa di diverso? Il fatto è che in Italia esiste ancora, malandato e lesionato, il tabù del razzismo. Ovvero, una residua interdizione morale nei confronti di parole e comportamenti di discriminazione verso chi appartiene ad altre etnie, culture e religioni.
In altre parole, all’interno degli stati democratici contemporanei, la qualifica di razzista è tuttora quella che suscita la massima riprovazione morale. E questo perché quegli stati sono fondati eticamente e giuridicamente su alcuni valori essenziali, tra i quali vi è l’eguaglianza, o comunque, la parità delle condizioni di partenza: e il razzismo, per sua stessa natura, è la negazione più radicale di quel principio in quanto si basa su una concezione gerarchica delle relazioni tra gli esseri umani.
Ecco, in Italia persino più che in altri paesi – in ragione della persistenza, ancorché in profonda crisi, di tradizioni culturali universalistiche – il veto nei confronti del razzismo dichiarato è ancora forte: ed è questo che impone a chi dice “ Fuori gli immigrati” di aggiungere “ma non siamo razzisti” .
Poi, è vero che in questa dichiarazione c’è anche la traccia di un alibi sociale e di una ipocrisia collettiva; e – nei militanti di CasaPound e di Forza nuova e nel discorso pubblico di Matteo Salvini e dei suo manutengoli – di una vera e propria strategia di manipolazione politica.
Anche se, attenzione, cominciano a manifestarsi coloro che si dichiarano apertamente razzisti, magari in antagonismo alla “omologazione mondialista” e all’“egualitarismo coatto della finanza internazionale”. O, più semplicemente, per ignominia personale.
Quando l’europarlamentare della Lega nord Gianluca Buonanno dice in tv rivolto a Dijana Pavlovic, di origine rom, “ siete la feccia dell’umanità”, senza che ciò incontri un’adeguata reazione politico-istituzionale, risulta evidente che il tabù del razzismo è stato gravemente lesionato.
Infine, ed è su questo che vorrei insistere, le parole “non siamo razzisti”, rivelano un ulteriore significato, forse minoritario, così traducibile: aiutateci a non diventare razzisti.
È questo il tratto più dolente dell’intera vicenda. Non c’è dubbio che il peso della presenza straniera si scarichi, quasi ovunque, sugli strati popolari della società, quelli che più patiscono la crisi economico-sociale e che vedono ridursi, giorno dopo giorno, le proprie risorse materiali e immateriali; così come, seppure non c’è alcuna vera e propria concorrenza per il posto di lavoro tra italiani e nuovi arrivati , si manifestano alcune forme di competizione intorno a beni scarsi, quali gli spazi, i trasporti, i servizi.
Di conseguenza, non si può agire con superficialità e irresponsabilità: le possibilità di accoglienza, che pure vi sono, vanno attentamente valutate, ponderate e, soprattutto, preparate e calibrate nei tempi, nei modi e nei luoghi.
Errori madornali
Ora, è ovvio che, a Treviso come a Roma, i militanti razzisti di CasaPound e Forza nuova devono essere messi nelle condizioni di non nuocere. È altrettanto ovvio che nei confronti degli imprenditori politici della paura e dell’intolleranza vada condotta un’intransigente lotta politica e, ancora, è ovvio che la legge vada rispettata e fatta rispettare.
E, tuttavia, ricordo che la situazione a Quinto di Treviso e al quartiere Casale San Nicola non era e non è la medesima. In quest’ultima, l’informazione sul prossimo insediamento di richiedenti asilo era stata fornita da tempo, e la destinazione per questi – appena 19 persone, venerdì scorso – era una scuola non più utilizzata.
A Treviso, invece, sembra che l’arrivo dei profughi non fosse stato anticipatamente comunicato, e nulla era stato fatto per favorire un’accoglienza meno ostile a 101 persone che si sarebbero dovute inserire da un giorno all’altro, in un condominio popolare.
Tutto ciò richiama l’esigenza di politiche amministrative (e anche di misure di ordine pubblico) sagge e prudenti, intelligenti e razionali. Da molto tempo, ormai, si è palesato il fallimento di una politica affidata alla distribuzione di migranti e profughi per grandi aggregati (decine e decine di persone nel centro di Tor Sapienza a Roma, 101 nel condominio di Quinto di Treviso…): una soluzione in genere totalmente negativa per i residenti così come per gli stranieri.
I primi vedono nell’addensarsi di estesi gruppi di persone in prossimità delle proprie abitazioni la proiezione di quella “invasione” che tutti i dati statistici smentiscono in maniera inconfutabile. I secondi vengono costretti a una coabitazione in comunità estese di profughi, in assenza spesso di qualsiasi precedente legame di conoscenza e di solidarietà.
Errori così madornali e così suscettibili di produrre effetti negativi si devono a tante cause, ma la prima e determinante è rappresentata dall’assenza di programmazione. Un fenomeno fisiologico come quello dei migranti e dei profughi viene affrontato immancabilmente come fosse una emergenza eccezionale, che – per giunta- si riproduce con scadenze sempre più ravvicinate.
Quel che è certo è che, invece, siamo in presenza di un movimento umano destinato a costituire un elemento permanente del paesaggio economico e sociale, nazionale e sovranazionale. Ciò, oltre a richiedere l’elaborazione – da subito, da oggi, da ieri – di una politica adeguata e di grande respiro, esige un atto di verità.
I governi e la classe politica devono avere l’intelligenza e la forza di dire che con la questione dell’immigrazione e dell’asilo siamo chiamati a convivere per i prossimi decenni. Sarà un’impresa ardua e, a tratti, dolorosa, ma ineludibile. Se opereremo tempestivamente, ciascuno facendo la propria parte, scopriremo che i benefici ricavabili potranno essere assai superiori alle fatiche da affrontare.
P.S. Questo ha molto a che vedere con gli orientamenti e gli atteggiamenti delle classi dirigenti del nostro paese: e del ruolo da essi giocato nella formazione del senso comune. Si prenda, per esempio, la vignetta di Giannelli pubblicata oggi sulla prima pagina del Corriere della Sera. Sia chiaro: la satira è per definizione intangibile e incensurabile, la si può condividere o no. E, tantomeno, la satira può essere criticata in nome del gusto (criterio che più soggettivo non si può) o degli effetti socialmente negativi che può suscitare. Anche solo avventurarsi su questo terreno e anche solo sollevare un dubbio in proposito, rischia di alimentare una forma di autoritarismo culturale, che semplicemente mi fa orrore. Dunque, qui si considera quella vignetta di Giannelli solo ed esclusivamente come un segno (grafico) rivelatore di una mentalità che, evidentemente, tende a diffondersi.
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