Il 5 dicembre 2014, a poco più di due anni dalla legge numero 92 del 28 giugno 2012 (meglio nota come “riforma Fornero”), la stessa maggioranza parlamentare che aveva approvato quella legge ha delegato il governo Renzi a riordinare la normativa sul lavoro, approvando la legge delega sul Jobs act (legge 183/14) (qui la sintesi della Federazione lavoratori della conoscenza-Cgil).
Intrisi come siamo della percezione di un immobilismo diffuso, della impossibilità di riformare alcunché in un paese sclerotizzato, due interventi di riforma su uno stesso tema nel giro di così pochi mesi possono apparire un’anomalia. Anche la celerità con cui il governo ha emesso i primi decreti attuativi rafforza questo senso di eccezionalità.
Il 24 dicembre il consiglio dei ministri ha infatti approvato il decreto sulla “nuova disciplina Aspi” e il “decreto legislativo sulle tutele crescenti”. Sebbene questi non coprano l’intero impianto del Jobs act – e rimandino loro stessi, come vedremo, a ulteriori decreti – i venti giorni impiegati per produrli rappresentano una chiara inversione di tendenza rispetto ai “tempi d’attesa” normalmente richiesti da questo tipo di provvedimenti.
Proprio il governo, un mese fa, segnalava come fossero ancora 274 i “provvedimenti da emanare”. Il primo decreto, in particolare, interviene proprio su quello che era stato definito “il primo tentativo d’insieme, deliberato, coraggioso e consapevole, di contrastare le due grandi distorsioni” del welfare all’italiana. Le due distorsioni sarebbero: una distorsione funzionale, che favorisce la vecchiaia rispetto ad altri “rischi” (in primis la disoccupazione), e una distributiva, “a favore degli occupati/insider”. Nell’analizzare la nuova disciplina dell’Aspi, dunque, ci sembra utile fare qualche passo indietro, e capire perché una riforma – quella della Fornero – nata sotto il segno del “Fate presto!” sia invecchiata così velocemente, lasciando sul terreno più macerie di quante abbia contribuito a rimuoverne.
La riforma Fornero: un fallimento annunciato?
Nel suo articolo 1, la riforma Fornero dichiarava di mirare a “realizzare un mercato del lavoro inclusivo e dinamico, in grado di contribuire alla creazione di occupazione, in quantità e qualità, alla crescita sociale ed economica e alla riduzione permanente del tasso di disoccupazione”; in particolare, “favorendo l’instaurazione di rapporti di lavoro più stabili e ribadendo il rilievo prioritario del lavoro subordinato a tempo indeterminato, cosiddetto ‘contratto dominante’, quale forma comune di rapporto di lavoro” (i corsivi, qui e nel resto dell’articolo, sono nostri).
Tra gli altri obiettivi dichiarati figurava la redistribuzione delle tutele dell’impiego, rendere “più efficiente, coerente ed equo l’assetto degli ammortizzatori sociali e delle politiche attive in una prospettiva di universalizzazione e di rafforzamento dell’occupabilità delle persone”, e “una maggiore inclusione delle donne nella vita economica”.
In realtà, da allora, la disoccupazione non ha accennato a ridursi: come si vede nella figura 1, partendo dalla data di entrata in vigore della legge 92/2012, il tasso di disoccupazione è aumentato di quasi il 15 per cento (nonostante alcuni goffi tentativi di fare confusione al riguardo). La dinamica generale, seppur trainata dalla disoccupazione giovanile, non è poi così dissimile per i meno giovani
Contemporaneamente è proseguita la tendenza a non fare contratti a tempo indeterminato (figura 2). Gli stessi contratti di apprendistato – identificati dalla riforma come la “modalità prevalente di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro” – languivano. Hanno avuto un’impennata, invece, i contratti a tempo determinato (riportati nel grafico con riferimento alla scala di destra), che sono arrivati così a rappresentare oltre due terzi dei nuovi contratti di lavoro.
L’effetto sul tasso di occupazione femminile è invece tutt’altro che chiaro, come mostrato dalla figura 3: alla fine del 2014 questo è infatti tornato quasi ai livelli di fine 2012, dopo esser tuttavia rimasto costantemente sotto (anche -1 per cento), seppur con qualche oscillazione. Il dato è peraltro da leggere non solo alla luce della crisi, economica e occupazionale, che attanaglia l’Italia dal 2008, ma anche con riferimento al secolare processo di partecipazione delle donne italiane al mercato del lavoro.
Pesa su tutti questi dati l’impatto prolungato della crisi economica, ed è certamente vero che non sapremo mai cosa sarebbe accaduto al mercato del lavoro in assenza della legge Fornero: tuttavia, trattandosi di una norma prodotta con l’intento di invertire una tendenza e assicurare l’occupazione e le tutele dei lavoratori italiani – la realtà – o perlomeno, la sua rappresentazione a mezzo statistico – è l’unico metro di valutazione di cui sentiamo di poter disporre.
Del resto, anche la “prospettiva di universalizzazione” a cui mirava la legge Fornero si è mostrata poco più che una suggestione. Secondo un rapporto presentato il 30 settembre dal Cnel (relatore Tiziano Treu), nel 2013 solo il 26,8 per cento delle persone rimaste senza lavoro ha beneficiato di uno dei due principali istituti di protezione previsti dal nostro ordinamento. Questa quota è in diminuzione ormai da due anni: se nel 2011 riceveva sussidi il 30 per cento dei disoccupati, nel 2013 il dato ne ha riguardato poco più di un quarto. Nonostante il forte aumento dei disoccupati, la riforma – legando l’erogazione dell’indennità di disoccupazione alla sola anzianità di contribuzione, e non a criteri oggettivi di bisogno – ha ristretto l’accesso ai sussidi, soprattutto per i lavoratori più giovani, rimanendo ben lontana da una reale universalizzazione.
Un fallimento su tutta la linea, dunque? Sembrerebbe di sì: e forse non era necessario il senno di poi, come dimostrano i commenti degli osservatori. Tra gli altri, su La Voce Tito Boeri e Pietro Garibaldi denunciavano già come “ci sarebbe voluto molto più coraggio sulla limitazione delle forme di lavoro parasubordinato e sul percorso verso la stabilità di chi cerca lavoro a tutte le età”. Addirittura, secondo i due economisti, a “ridurre il precariato ci penserà, inevitabilmente, la prossima riforma”. Un commento non di poco conto, trattandosi degli alfieri italiani del “contratto unico a tutele crescenti”, lanciato proprio su La Voce e poi in un libro, uscito sette anni fa.
Prima dell’Aspi: l’indennità di disoccupazione
Il primo dei due decreti, quello relativo alla riforma della Aspi (Assicurazione sociale per l’impiego) interviene in risposta al primo articolo del Jobs act, che chiede al governo di “assicurare, in caso di disoccupazione involontaria, tutele uniformi e legate alla storia contributiva dei lavoratori, di razionalizzare la normativa in materia di integrazione salariale e di favorire il coinvolgimento attivo di quanti siano espulsi dal mercato del lavoro ovvero siano beneficiari di ammortizzatori sociali […]”.
L’Aspi era stata introdotta proprio dalla legge Fornero, in sostituzione della vecchia indennità di disoccupazione ordinaria. Quest’ultima era stata introdotta per la prima volta nel 1919, nella forma di assicurazione contro la disoccupazione.
Lo stato in sostanza obbligava i lavoratori a mettere da parte una quota del loro stipendio, in modo da assicurarli contro l’eventualità di perderlo: una sorta di estensione obbligatoria a tutti i lavoratori di quanto già realizzavano dalla fine dell’ottocento le prime mutue cooperative.
All’epoca la previdenza sociale era infatti vista come un “complesso di attività che lo stato direttamente o indirettamente svolge per eliminare negl’individui il bisogno di ricorrere alla beneficenza”, allo scopo di “prevenire gli effetti della miseria mediante particolari istituzioni, alle quali vengono interessati gli stessi destinatari, attraverso il risparmio”.
È stato il fascismo a rimettere ordine nella normativa con la legge 1155 del 1936 che, come spiegavano Leombruni, Paggiato e Trivellato (2012), è rimasta fino alla Fornero l’ossatura essenziale di questo istituto previdenziale. Gli stessi autori del resto spiegavano come l’indennità abbia funzionato molto poco: “Ha avuto un ruolo marginale nelle politiche di welfare, principalmente per via del basso valore del beneficio pagato. Nel lontano 1974 l’indennità fu stabilita in somma fissa, 800 lire giornaliere – che valevano circa il 15 per cento di un tipico salario operaio – e l’importo tale rimase fino al 1988. La legge 160 del 1988 stabilì per la prima volta che l’importo fosse commisurato alla retribuzione, in una percentuale però ancora decisamente bassa, pari al 7,5 per cento. Negli anni il tasso di sostituzione è stato poi gradualmente innalzato, fino ad arrivare al 60 per cento nel 2008”.
In ogni caso, il limite maggiore della vecchia indennità, che è anche la motivazione dei più recenti propositi di riforma, era il fondamentale dualismo prodotto tra lavoratori dipendenti a tempo indeterminato e l’eterogeneo mondo dei “precari”: ossia quella che si può definire la distorsione distributiva. Un vizio originario del modello italiano di previdenza sociale contro la disoccupazione, diventato socialmente e politicamente esplosivo quando sono cambiate, e parecchio, le condizioni del mercato del lavoro.
Di fatto, mentre i primi, i dipendenti – grazie a contributi propri o alla “generosità” dello stato – erano assicurati in qualche modo contro la perdita del lavoro, la sempre più vasta moltitudine dei non garantiti (chi non era ancora entrato nel mondo del lavoro, e chi lo aveva fatto con una delle nuove forme contrattuali) era eterogenea in tutto ma non in questo: cioè l’impossibilità di accedere a forme di sostegno al reddito nei periodi di disoccupazione involontaria, come testimonia questo video dell’epoca.
La nuova Aspi: criteri di accesso
Questi “tradizionali” sistemi di protezione dalla disoccupazione sono stati radicalmente trasformati proprio dalla riforma Fornero, che ha introdotto l’Aspi e la miniAspi. Ma come recita l’articolo 1 del decreto sulla nuova disciplina Aspi, entrambi gli istituti, Aspi e miniAspi, entrati in vigore nel gennaio 2013, saranno già sostituiti, a partire dal 1 maggio 2015 dalla “nuova Aspi” – Naspi, per gli amici.
I destinatari dei vecchi e dei nuovi istituti restano gli stessi: è confermata infatti dall’articolo 2 la “esclusione dei dipendenti a tempo indeterminato delle pubbliche amministrazioni” – sui quali, dopo una polemica iniziale, il responsabile economico del Pd Taddei ha dichiarato che il governo ha la volontà politica di intervenire contestualmente alla riforma del pubblico impiego – e quella degli “operai agricoli a tempo determinato o indeterminato”, che mantengono un regime a parte. Lo stesso dovrebbe valere per i lavoratori extracomunitari con permesso di soggiorno per lavoro stagionale, per i quali la vecchia Aspi prevedeva il mantenimento del regime a parte, anche se nel testo del decreto non ci sono riferimenti. Risultano comunque sottoposti alla Naspi tutti i lavoratori dipendenti (inclusi gli apprendisti) del settore privato, i lavoratori soci di cooperativa, i lavoratori subordinati dei settori artistico, teatrale e cinematografico e i dipendenti a tempo determinato delle pubbliche amministrazioni.
La prima rilevante novità riguarda invece i requisiti necessari affinché un disoccupato possa fare richiesta della Naspi. Come specifica l’articolo 3, possono fare richiesta i lavoratori “in stato di disoccupazione” (definito dal decreto legislativo 21 aprile 2000, numero 181 e successive modificazioni come “condizione del soggetto privo di lavoro, che sia immediatamente disponibile allo svolgimento ed alla ricerca di una attività lavorativa secondo modalità definite con i servizi competenti”) che:
- nei quattro anni precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione abbiano almeno tredici settimane di contribuzione;
- abbiano svolto diciotto giornate di lavoro effettivo o equivalenti, a prescindere dal minimale contributivo, nei dodici mesi che precedono l’inizio del periodo di disoccupazione.
Le misure rappresentano una notevole estensione dei criteri applicati precedentemente: la vecchia Aspi, oltre a escludere a priori dal sussidio di disoccupazione chi non avesse un’anzianità di contribuzione di almeno un anno, si applicava infatti solo a chi avesse versato un intero anno di contributi nei due anni precedenti alla richiesta – un requisito straordinariamente simile a quello di “almeno 24 contributi quindicinali” in un biennio, previsto dalla normativa del 1919.
Un passo non da poco per chi ne potrà beneficiare – 1,2 milioni di persone secondo il governo – ma forse non così lungo per l’Italia, che rimane ancora una volta lontana dall’universalità. Rimane infatti ancora completamente escluso chi un lavoro proprio non è mai riuscito a trovarlo – ed emerge qui tutta l’ambiguità di quelle tutele che la Fornero voleva allo stesso tempo uniformi ma legate alla storia contributiva.
La questione, evidenziata già in passato da osservatori attenti come Saraceno, dovrebbe essere affrontata più coerentemente nell’ambito delle proposte sul reddito minimo, che sono tornate all’attenzione del senato proprio nella prima settimana del 2015, quando sembrava che le diverse forze politiche che ne avevano parlato, con diversa enfasi, nella campagna elettorale di oramai due anni fa, le avessero irrimediabilmente dimenticate.
Anche per chi un lavoro lo trova, tuttavia, non è detto che la situazione sia più rosea: la durata sempre più irrisoria dei nuovi contratti – secondo la Cgil, “più di 400mila attivazioni che si sono registrate nell’ultimo trimestre sono durate solo un giorno e oltre 900mila contratti sono durati meno di un mese” – mette a repentaglio l’accesso alle tutele di molti giovani, che sempre più spesso accedono a contratti che durano tra un giorno e un mese, e quindi potrebbero aver bisogno di più di tre contratti per maturare i requisiti per richiedere la Naspi.
Entità e durata dell’assegno di disoccupazione
Proseguendo con l’analisi del decreto, il calcolo dell’indennità di disoccupazione (articolo 4) non differisce dalla precedente disciplina: chi ha avuto una retribuzione “pari o inferiore, nel 2015, all’importo di 1.195 euro mensili” riceverà una indennità mensile “pari al 75 per cento della retribuzione”.
Nel caso in cui invece la retribuzione fosse maggiore, al 75 per cento viene aggiunto il 25 per cento dell’eccedenza: da una retribuzione di 1.500 euro, per esempio, otterremmo 1.125 più un quarto della differenza tra 1.500 e 1.195 euro, arrivando a circa 1.200 euro. In ogni caso, l’indennità non può superare i 1.300 euro al mese: questa cifra, come quella di 1.195, è rivalutata ogni anno sulla base dell’inflazione misurata dall’Istat.
L’assegno si riduce poi del 3 per cento ogni mese, a partire dal quinto: prima scattava una riduzione “secca” del 15 per cento dopo i primi sei mesi, e di un ulteriore 15 per cento al versamento del dodicesimo mese.
Immaginiamo un disoccupato che abbia percepito prima esattamente 1.195 euro mensili: con la Naspi godrà di 896 euro per i primi 4 mesi, 869 euro il quinto, e via via fino a 702 euro al dodicesimo mese. Rispetto alla Fornero, vi sarebbe un guadagno annuo di 38 euro.
È assai diversa, però, la durata del sostegno al reddito (articolo 5). Con la Naspi, questo sarà legato all’anzianità lavorativa e non all’età anagrafica, come prevedeva invece la riforma Fornero. A partire dall’entrata in vigore, la Naspi dura infatti “un numero di settimane pari alla metà delle settimane di contribuzione degli ultimi quattro anni”.
Se fosse rimasta in vigore la legge Fornero, chi ha meno di cinquant’anni avrebbe ricevuto l’indennità di disoccupazione per otto mensilità, che aumentavano a dodici se il soggetto ha tra i 50 e 55 anni e a sedici superati i 55 anni di età.
Se la novità comporta il superamento di una discriminazione basata su un criterio odioso come la mera età anagrafica, d’altra parte, con la Naspi la durata dell’assicurazione è determinata dal successo lavorativo. Proprio i lavoratori che hanno sperimentato contratti di lavoro più brevi e saltuari riceveranno dunque un contributo al reddito per meno tempo.
Compatibilità e altri dettagli
Il diritto all’assegno scatta a partire dal giorno successivo alla domanda, che va presentata online all’Inps entro sessantotto giorni dalla cessazione del rapporto di lavoro (articolo 6). La prestazione è condizionata al permanere dello stato di disoccupazione (articolo 7), ma è compatibile con un lavoro subordinato (articolo 9) o autonomo (articolo 10) nel caso in cui il reddito percepito non superi il minimo imponibile (fra i tremila e i 4.500 euro annui, a seconda della tipologia di impiego): in questi due casi casi, la Naspi è ridotta del 20 per cento.
L’articolo 8 prevede che in caso di contratti subordinati con reddito superiore al minimo, ma di durata inferiore ai sei mesi e firmati dopo aver richiesto la Naspi, l’assegno sarà corrisposto se si riperderà il lavoro e questo grazie al diritto acquisito in precedenza. In ogni caso, sempre secondo l’articolo 7, il disoccupato si deve dare da fare, ossia è tenuto a partecipare alle “iniziative di attivazione lavorativa nonché ai percorsi di riqualificazione professionale”: il diritto decade (articolo 11) quando si esce dalla disoccupazione, si raggiungono i requisiti per il pensionamento, si ottiene l’assegno di invalidità o si violano le condizionalità e le comunicazioni obbligatorie previste dagli articoli qui riassunti. Rimane la possibilità, già prevista dall’Aspi, di richiedere “la liquidazione anticipata, in unica soluzione” di tutto l’importo cui ha diritto, per avviare “un’attività di lavoro autonomo”, un’impresa individuale o una cooperativa (articolo 8).
Dopo la Naspi, l’Asdi
L’articolo 15 introduce poi – in via sperimentale per l’anno 2015 – un ulteriore assegno di disoccupazione (Asdi), pensato come “tutela di sostegno al reddito” distribuita unicamente in via elettronica sotto forma di social card elettronica. L’Asdi spetta a chi, dopo aver fruito di tutta la Naspi che gli spettava, si trovi ancora senza lavoro e si trovi “in una condizione economica di bisogno” determinata da una soglia dell’Indicatore della situazione economica equivalente (Isee) che sarà definita dal ministero del lavoro con un decreto successivo.
Lo stesso decreto dovrà stabilire requisiti di accesso, i programmi di ricerca del lavoro – nonché le eventuali sanzioni e decadenza della condizione di eleggibilità – che prevederà comunque l’obbligo di seguire percorsi di reinserimento lavorativo personalizzati, anche questi da specificare.
Per la misura sono stanziati 300 milioni, che andranno “prioritariamente riservati ai lavoratori appartenenti a nuclei familiari con minorennni e quindi ai lavoratori in età vicina al pensionamento, ma che non abbiano maturato i requisiti”.
Nella pratica l’Asdi sarà un assegno pari al 75 per cento dell’ultima mensilità della Naspi percepita, a meno che non sia inferiore all’assegno sociale – attualmente fissato a un massimo di 447 euro mensili – e salvo incrementi per familiari a carico, da stabilire sempre per decreto.
L’Asdi risulta dunque avere una formulazione ibrida, perché è basata su criteri di bisogno materiale – assicura dunque contro la disoccupazione, ma non contro la povertà, come il reddito garantito – e però si applica solo a chi godeva di tutela contro la disoccupazione da lavoro subordinato e ha beneficiato della Naspi (restano quindi esclusi i collaboratori disoccupati di lungo periodo) e non agli attuali disoccupati di lungo periodo, poco meno di due milioni di persone secondo l’Istat.
È utile ricordare che l’assegno sociale, invece, spetta solo a chi abbia almeno 65 anni e tre mesi.
E per i contratti di collaborazione coordinata e continuativa? La Dis-Coll
Il testo del Jobs act impegna il governo a “universalizzare il campo di applicazione dell’Aspi, con estensione ai lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa, […] prevedendo, prima dell’entrata a regime, un periodo almeno biennale di sperimentazione a risorse definite”. A questo dovrebbe rispondere l’articolo 16 del decreto che, “in attesa degli interventi di semplificazione, modifica o superamento delle forme contrattuali” previsti dallo stesso Jobs act, ma ancora non affrontati nei primi due decreti attuativi presentati dal governo, riconosce una indennità di disoccupazione per i lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa (co.co.co.) e per i collaboratori a progetto (co.co.pro.), “iscritti in via esclusiva alla gestione separata, non pensionati e privi di partita iva, che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione”.
Denominata Dis-Coll, sarà sperimentata dal giugno al dicembre 2015 (anziché per due anni come proposto inizialmente nel testo della legge delega), e si presenta con caratteristiche più restrittive rispetto a quanto richiesto ai dipendenti subordinati. Ne possono beneficiare infatti coloro che simultaneamente:
- possano far valere almeno tre mesi di contribuzione dal gennaio 2014;
- abbiano lavorato almeno un mese nel 2015, percependo un reddito almeno uguale alla metà “dell’importo che dà diritto all’accredito di un mese di contribuzione”, che nel 2015 è di 15.516 euro annui.
Il governo non ha fornito stime su quanti potrebbero essere i beneficiari che si dovranno dividere i 60 milioni di euro stanziati per il 2015 – cifra che era già stata prevista per la cosiddetta “indennità una tantum” della Fornero, pensata però per i soli co.co.pro.
Basandosi sulla legge delega, l’associazione XX Maggio ha contato 267.079 co.co.pro. e 46.577 co.co.co. con tre mesi di contributi, cioè circa il 41 per cento delle due categorie, ma bisognerà scremare ulteriormente valutando l’entità del contributo.
Anche senza contare i “circa trecentomila lavoratori parasubordinati e a partita iva iscritti alla gestione separata, i lavoratori autonomi iscritti all’ex Enpals e tutti i liberi professionisti”, per quanto riguarda i collaboratori continuativi rimaniamo lontani dall’universalità. Già. Per i fruitori, l’importo sarà calcolato esattamente come per la Naspi, ma la durata massima non potrà superare i 6 mesi; per di più, per la Dis-Coll “non sono riconosciuti i contributi figurativi” – a differenza di quanto previsto per la Naspi dall’articolo 12.
Conclusione. O no?
Se l’obiettivo del governo e della maggioranza rimane quello di arrivare a una copertura universale dal rischio di disoccupazione, allora non si può che fare eco a Boeri e Garibaldi: aspettiamoci ancora una nuova riforma. Presto, aggiunge il giovane precario che è in noi.
Come si è visto, nel complesso la riforma estende sì in modo significativo le tutele – abbassando i requisiti richiesti ai lavoratori dipendenti e includendo, per la prima volta non in forma una tantum, co.co.co. e co.co.pro. – ma lascia fuori ancora gran parte del mondo degli outsider.
Non solo: la protezione offerta è decisamente più debole per precari e sottoccupati, visto che la durata e l’entità del sostegno al reddito rimangono legate alla capacità contributiva pregressa.
Un collaboratore continuativo (se percepiva il reddito necessario) potrà beneficiare del sussidio per un periodo inferiore, pur avendo lavorato per un periodo superiore.
Ancora: uscendo dal mondo astratto del legislatore per entrare in quello concreto del lavoro, la discriminazione “anagrafica” tra lavoratori rischia di continuare, in virtù di una precarietà occupazionale che è sempre meno riconducibile a uno stato di crisi, e che invece sembra sempre più la normalità della vita occupazionale dei nuovi lavoratori.
Inoltre, sulla base del “merito” lavorativo, aumenta la disuguaglianza nella durata delle prestazioni ricevute.
L’allargamento della copertura viene poi raggiunto stravolgendo una normativa riformata appena quindici mesi fa, introducendo nuovi istituti in forma sperimentale, e lasciando a ulteriori decreti la definizione di aspetti fondamentali del nuovo regime.
La stessa riforma delle forme contrattuali, prevista dalla delega del Jobs act, renderà probabilmente necessario ritornare sulla materia, sia per introdurre tutele per chi continuerà a non rientrare nella Naspi e nel Dis-Coll, sia per rivedere le coperture, nel caso le nuove norme riuscissero a convogliare i nuovi assunti sulle forme di contratto tutelate, mentre molti altri disoccupati dovranno aspettare l’esito della discussione sul reddito minimo.
Ancora una volta – in continuità con la stessa Fornero – si scarica tutto sulle future leggi di stabilità, se non su una nuova riforma. Figuriamoci, è una prassi politicamente legittima, che però aggiunge altra insicurezza per chi vede dipendente da queste misure la propria capacità di mettere assieme il pranzo con la cena.
Da ultimo: se guardiamo in prospettiva l’evoluzione del welfare italiano, notiamo che nulla si muove per superare quella distorsione funzionale messa a nudo dalla crisi economica abbattutasi sull’Italia ormai più di cinque anni fa.
È dagli anni ottanta che l’Italia si trascina una divisione insopportabile tra chi ha potuto beneficiare di un sistema immaginato in funzione del lavoro a tempo indeterminato nel pubblico o in grandi aziende e quelli che invece sono entrati nel lavoro dalla porta più stretta dei contratti atipici.
Ora, i livelli di disoccupazione raggiunti negli ultimi anni hanno reso evidente l’insufficienza delle risorse impiegate per proteggere dal rischio di perdere il lavoro, o di non trovarlo proprio. Eppure, è proprio la crisi a costringere a una riforma che nulla o quasi aggiunge sul piano delle risorse, rimandando a data da destinarsi la possibilità di disegnare un nuovo modello di welfare, finalmente europeo e più universale. Ma di fare questo, nessuno pare aver fretta.
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