Ormai da più di un anno il dibattito intorno ai dati sul mercato del lavoro occupa uno spazio notevole sui mezzi d’informazione almeno una volta al mese. Da ultimo, i dati dell’Osservatorio Inps sul precariato sembrano gettare un’ulteriore ombra sugli effetti dell’ultima riforma, il jobs act, che a due anni di distanza dalla legge Fornero è intervenuta per portare più flessibilità nel sistema delle relazioni industriali.
Secondo l’Inps, il numero di contratti nei primi otto mesi del 2016 è complessivamente di 703.384, di cui appena 53.303 ascrivibili ai contratti a tempo indeterminato, incluse le stabilizzazioni di contratti a termine e apprendistato.
Se considerassimo invece solo i nuovi rapporti a tempo indeterminato, quelli che così nascono, senza passare per altre forme precarie prima della stabilizzazione, allora si nota un calo netto (-201.363) dovuto a un arresto delle assunzioni da parte delle imprese, più che alle interruzioni dei rapporti di lavoro che tuttavia, come vedremo, forniscono informazioni interessanti.
I sostenitori del jobs act hanno tuttavia puntualizzato che il dato sui contratti a tempo indeterminato è comunque positivo, una volta tenuto conto delle stabilizzazioni. Vero, peccato però che in questi otto mesi le trasformazioni siano diminuite non solo rispetto al 2015, ma anche rispetto al 2014, quando vigeva ancora l’articolo 18 e la decontribuzione sul costo del lavoro non era ancora stata approvata.
L’esito del confronto con il 2014 è negativo anche per i nuovi contratti a tempo indeterminato, mentre i contratti a termine sono adesso più numerosi. Meno contratti stabili e più contratti a tempo determinato può essere facilmente tradotto in un aumento netto della precarietà.
Restando al dibattito sui contratti a tempo indeterminato, fin qui è possibile sostenere due cose: la prima, che le imprese hanno razionalmente approfittato della decontribuzione totale sul costo del lavoro (fino a 8.060 euro all’anno per lavoratore) per assumere lavoratori di cui avevano bisogno nel 2015 ma anche preventivamente quelli che sarebbero serviti nel 2016, data la sia pur limitata ripresa congiunturale. Assunzioni che sarebbero comunque state fatte per soddisfare bisogni produttivi. In questo senso, gli sgravi si confermano uno spostamento di reddito nazionale dalla finanza pubblica – a cui contribuiscono sostanzialmente i salari attraverso la tassazione – ai profitti.
La seconda, più rilevante, è che la decontribuzione non ha avuto alcun effetto espansivo: le assunzioni che hanno fruito degli sgravi non ne hanno generate di altre, per esempio attraverso la spinta di consumo dei nuovi assunti e quindi un aumento della produzione attraverso la domanda interna.
Le assunzioni nel settore privato non stimolano l’economia, dal momento che si concentrano nei segmenti del terziario a scarsa produttività
Rimane che la fiscalità generale ha speso ben oltre gli undici miliardi iscritti a bilancio in legge di stabilità – secondo le stime, il costo si aggira tra i 14 e 22 miliardi – ed è sulla base di questo costo che bisogna chiedersi se un’altra politica occupazionale era auspicabile quando non necessaria, proprio in termini di capacità espansiva.
Solo per fare degli esempi, si sarebbe potuto intervenire una volta per tutte nello sblocco del turnover della pubblica amministrazione a favore delle generazioni più giovani o dell’università pubblica, sempre più in declino per carenza di fondi e stabilità lavorativa dei ricercatori, così come nella sanità.
Assenza di un piano industriale
Ma non è un caso che le assunzioni nel settore privato non stimolino l’economia, dal momento che queste si concentrano nei segmenti del terziario a scarsa produttività: ristorazione, magazzinaggio, vendita al dettaglio.
Ed è sulla base di quest’ultima evidenza che crolla il mito delle politiche attive del lavoro, come strumento salvifico per l’occupazione. Se questa è la domanda da parte delle imprese, in assenza di un piano industriale che stimoli settori strategici per rilanciare strutturalmente l’economia italiana, la ricollocazione dei lavoratori o il loro inserimento nel mercato del lavoro non potrà avvenire altrove.
Ma è bene pure ricordare che il terziario a bassa produttività è anche quello in cui esplode il lavoro occasionale, il cottimo e quegli episodi di sfruttamento che la cronaca ha fatto emergere negli ultimi mesi.
Infatti, accanto a quel che rimane dei contratti di lavoro, spiccano i voucher: tra gennaio e agosto ne sono stati venduti più di novantasei milioni e mezzo. Un monte ore che, assumendo per difetto che a ogni voucher corrisponda un’ora di lavoro, equivale a un impiego di 71.875 lavoratori a tempo pieno nello stesso periodo. A ben vedere, nel 2016 sono più le ore coperte dai buoni lavoro di quelle coperte dai contratti a tempo indeterminato se si escludono gli straordinari.
Da un lato, come si è visto, il numero di contratti a tempo indeterminato stipulati nel 2016 è inferiore a 71mila e dall’altro, più della metà di questi contratti sono dei part time: si riferiscono cioè a un orario di lavoro inferiore alle otto ore giornaliere. Inoltre, come mostrato da una recente ricerca sui dati Inps, i voucher sono usati dalle imprese proprio per remunerare ore di lavoro svolte dai propri stessi dipendenti. Un’attività illecita secondo il diritto del lavoro che tuttavia risponde non all’emersione del lavoro irregolare quanto all’obiettivo di comprimere quanto più possibile il costo del lavoro.
Dove non arrivano gli sgravi arriva la precarietà più estrema. In entrambi i casi a subirne gli effetti sono principalmente la maggioranza di lavoratori e disoccupati (ancora tre milioni) e le potenzialità future dell’intero sistema economico e occupazionale, che non può essere rimesso alla discrezionalità di una classe imprenditoriale e politica come quella attuale italiana.
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