American sniper

Cos’è. È il film di Clint Eastwood che racconta la storia del marine Chris Kyle, tratta dal libro omonimo scritto dallo stesso Kyle con il saggista militare Jim DeFelice. Kyle, texano, è il cecchino che ha ucciso più nemici nella storia dell’esercito degli Stati Uniti. È stato in Iraq in quattro diverse missioni ed è diventato una specie di eroe nazionale. Il film racconta il suo arruolamento dopo una breve carriera da atleta di rodeo, l’addestramento, le missioni, la perdita di alcuni amici in battaglia, la costruzione di una famiglia e il ritorno alla vita normale. Bradley Cooper interpreta Kyle e Sienna Miller è la moglie Taya. Negli Stati Uniti il film ha avuto un successo enorme, sia in assoluto sia rispetto alla filmografia di Eastwood.

Com’è. Il protagonista di questo film è il distillato di una certa americanità che per noi europei è abbastanza aliena: si guadagna da vivere a cavallo di tori scalcianti, si arruola, difende la bandiera e i valori che rappresenta, diventa un cecchino letale, abbandona il fronte controvoglia. La sua abilità e il suo ruolo lo trasformano in una leggenda vivente presso le truppe, una figura mitica che sta tra il fratello maggiore e l’angelo custode. Il film racconta la storia di Kyle e allo stesso tempo ne incarna il punto di vista. Anzi, di più. Eastwood aggiunge una nemesi di Kyle, un tiratore scelto iracheno che rappresenta il male vivente e non è mai esistito (né nella realtà né nel libro). Inoltre nel libro Kyle vive tutte le contraddizioni della guerra, lo stress post traumatico, l’alcolismo, la violenza, la vanagloria, il tormento di tutti i reduci. Il film smussa tutti questi angoli, addolcisce i contrasti e costruisce una parabola di eroismo militare contemporaneo. È, in buona sostanza, un film patriottico.

Perché vederlo. Clint Eastwood è un signore. Per anni ha fatto un cinema onesto, cocciuto, in equilibrio tra normalità e slancio. È un cinema vecchio stampo, come certi vecchi caffè coi camerieri in livrea, fuori dal tempo ma rassicuranti. Va anche detto che Eastwood è abbastanza discontinuo, e ultimamente ha diretto alcuni film molto modesti come Invictus e Jersey boys. Questo film ha quella fermezza stilistica che ne fa un prodotto solido e semplice insieme. Bradley Cooper punta al ruolo di americano medio che è stato di Tom Hanks, e riesce a sparire nel personaggio; Sienna Miller fa lo stesso. Come spesso nei film di Eastwood, la compattezza assorbe gli attori e le loro interpretazioni. La guerra, che occupa gran parte del film, è ripresa con una schiettezza militare che non conosce ripensamenti nemmeno dal punto di vista estetico. Questo taglio rende American sniper visivamente violento, perché sangue e morti abbondano, ma incapace di lasciare strascichi e rimorsi.

Perché non vederlo. Il cinema di Clint Eastwood spesso è costruito su posizioni moralmente complesse, dove i personaggi sono presi tra vita e morte, destino e amore, vendetta e giustizia. Eastwood è un repubblicano, ma un repubblicano lontano dalla semplicità militante della destra populista in stile Fox News. Eppure evidentemente la guerra è un tema più delicato di altri. Il cinema ne parla da sempre in qualsiasi modo: conosciamo film di eroismo militare (Dove osano le aquile), film di eroismo rocambolesco (Quella sporca dozzina, Bastardi senza gloria), film bellici esistenziali (La sottile linea rossa, Apocalypse now), film antimilitaristi (Nato il 4 luglio) eccetera. Kathryn Bigelow, che non è esattamente Oliver Stone, ha diretto due film sulle campagne militari nel Medio Oriente, The hurt locker e Zero dark thirty, capaci di raccontare la guerra e le sue contraddizioni riempiendo lo spettatore di emozione e interrogativi: film che sanno essere contemporanei, militari, ma non militaristi (Zero dark thirty, che racconta l’omicidio di Osama bin Laden, è stato prodotto dall’unico finanziatore disposto ad accettare che il film fosse costruito solo con giornalisti e consulenti indipendenti, tenendo fuori l’esercito, ovvero Megan Ellison, la figlia del terzo uomo più ricco d’America).

Clint Eastwood ha deciso di costruire un film che parte da un’interpretazione del mondo, della guerra e della vita propria di un militare e patriota texano senza tentennamenti: uno per la cui determinazione potremmo usare l’urticante espressione “senza se e senza ma”. In una scena all’inizio del film il padre di Kyle a tavola spiega ai figli bambini che gli uomini si dividono in pecore, lupi e cani da pastore, e nella loro famiglia non si crescono pecore. Il film abbraccia questo punto di vista ancora più del suo protagonista. Perché la storia di Chris Kyle raccontata nel libro è diversa, più cupa e tormentata. Lo sguardo di Eastwood quindi non è “neutro” come si è detto: interpreta, smussa, elimina le imperfezioni, dà una faccia scura, muta e astratta al nemico, toglie l’alcol, alleggerisce la violenza del ritorno, lima gli spigoli. Kyle veniva da una famiglia di patrioti, è stato cresciuto in uno stampino perfetto, lui e il fratello sono diventati militari; al ritorno ha cominciato a raccontare balle, è andato ospite ovunque a fare l’eroe spaccone, ha cercato di trasformarsi nel supereroe che tutti ammiravano. Tutto questo, che faceva parte della sua storia, sarebbe stato vero e interessante, ma il film ha deciso di farne a meno. In questo modo si è trasformata una storia umana molto affascinante (compreso l’epilogo, qui appena sfiorato) in una parabola patriottica fastidiosamente vicina alla propaganda. Il risultato è così compatto, preciso e privo di sfaccettature che, se non avvince, annoia parecchio.

Una battuta. They’re savages!

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